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Da tempo si era al punto in cui è la legge a fare la morale, perché alla morale non è più consentito indirizzare le leggi. Il declino della civiltà giuridica italiana, poi, ha compiuto un altro passo. Ora sono i giudici, a colpi di sentenze, a produrre le norme del diritto, perché i legislatori non ne sono in grado. A completare il ribaltamento del principio di sussidiarietà, gli Ordini professionali abdicano al proprio ruolo di coscienza delle categorie che rappresentano, per adeguarsi alla malattia che ha contagiato il corpo sociale.
Così ha fatto ieri, 6 febbraio, anche il Consiglio della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (FNOMcEO) integrando il Codice deontologico che, all’articolo 17, prevede che il medico, anche su richiesta del paziente, non debba né attuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. D’ora in poi però, ha deciso il Consiglio nazionale FNOMcEO, composto dai 106 presidenti degli Ordini territoriali, non sarà più punibile dal punto di vista disciplinare, dopo attenta valutazione del singolo caso, il medico che liberamente sceglie di agevolare il suicidio, ove ricorrano le condizioni poste dalla Corte Costituzionale nella sentenza resa nota il 25 settembre 2019. La Consulta aveva depenalizzato il suicidio medicalmente assistito, in caso di «patologia irreversibile» e segnata da sofferenze «fisiche o psicologiche» ritenute «intollerabili». Ma non aveva affatto chiesto una modifica al Codice Deontologico.
Si tratta in realtà di una prassi che si consolida, dopo l’archiviazione da parte dell’Ordine dei medici di Udine del caso relativo alla morte, il 9 febbraio 2009, di Eluana Englaro (1970-2009). Il 31 agosto 2010 era stata stabilita «la prevalenza del diritto all’autodeterminazione del paziente, diritto ricostruito attraverso la decisione della magistratura, che aveva parlato di “consenso presunto”», dal momento che Eluana, a causa dell’incidente d’auto del gennaio 1992, viveva da allora in uno stato vegetativo permanente. Finiva così archiviato, a un anno dall’apertura, il procedimento disciplinare nei confronti del dottor Amato De Monte, il medico anestesista che, nel febbraio del 2009, fu a capo dell’équipe che applicò il protocollo in esecuzione della sentenza della Corte d’Appello di Milano.
Ieri, l’Ordine nazionale dei Medici è andato oltre, dichiarandosi incapace di decidere sulla «libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure)». Pertanto «il Consiglio nazionale Fnomceo, composto dai 106 presidenti degli Ordini territoriali, ha così voluto aggiornare il Codice dopo la sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale, che ha individuato una circoscritta area in cui l’incriminazione per l’aiuto al suicidio non è conforme alla Costituzione. Si tratta dei casi nei quali l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (quali, ad esempio, l’idratazione e l’alimentazione artificiale) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, ma che resta pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Se ricorrono tutte queste circostanze, oltre ad alcune condizioni procedurali, l’agevolazione del suicidio non è dunque punibile da un punto di vista penale».
Agli psichiatri che accertino, nelle condizioni di sofferenza «intollerabili» citate dalla Corte, la volontà del paziente di anticipare l’ora della morte, ai medici che, considerando terapie l’idratazione e l’alimentazione, lo condannino a concludere anticipatamente la propria esistenza per fame e sete, anche se in stato di sedazione profonda, non si chiede più di svolgere un servizio alla vita, ma alla morte.