Geografia di morte, l’aborto fai-da-te ai tempi del coronavirus

Stati Uniti, Canada, Argentina: nulla ferma la macchina del sangue

Pillola aborto

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Last updated on Maggio 15th, 2020 at 11:16 am

Nella lotta al CoViD-19, pare, su un solo fronte tutto il mondo si trova unito in un giudizio e in una linea d’azione comune: l’aborto è pratica medica essenziale, urgente, che non può in alcun modo essere fermata dalla pandemia. Anzi proprio questo pare il momento per premere sull’acceleratore, semplificando ulteriormente le modalità di accesso, diffondendo l’aborto farmacologico, anche via Facebook.

“iFamNews” continua a svolgere il proprio compito di testimonianza e informazione, in un momento storico in cui l’aborto, prima causa di morte nel mondo nel 2019, continua a uccidere più del coronavirus.

Alle Hawaii l’aborto è telematico

Dalle Hawaii arriva la storia di Ashley Dale, che, in videoconferenza con un medico distante più di 200 miglia, mentre la sua bambina di tre anni le gioca accanto, prende la decisione di disfarsi del suo secondo bimbo: non già perché non desideri un altro figlio, ma per «circostanze che coinvolgono un fidanzato ormai lontano». La soluzione è semplicissima: con il programma TelAbortion, programma che «sta lavorando per espandersi in nuovi Stati il più rapidamente possibile», dopo una consulenza in video con un “medico certificato” la donna riceve le pillole per posta e può utilizzarle da sola. L’esplosione del coronavirus ha generato una crescita esponenziale di questa pratica e al 22 aprile TelAbortion aveva già spedito 841 pacchi contenenti pillole abortive, confermando più di 600 aborti praticati e altri 216 casi ancora in fase di follow-up. Una tale rapida diffusione di questa pratica aberrante negli Stati Uniti d’America ha spinto i senatori Repubblicani a presentare un progetto di legge che vieti l’aborto in telemedicina.

In Canada l’aborto vien prima del cancro

Non troppo lontano, in Ontario, Canada, negli ospedali si continuano a praticare aborti, mentre vengono dilazionati interventi cardiaci o tumorali. Non è immaginabile ledere il “diritto” di una donna di disfarsi immediatamente della vita che porta in grembo, mentre il ministro della Sanità si trova costretto ad ammettere che almeno «35 persone potrebbero essere morte per non essere state sottoposte a cardiochirurgia in tempo». D’altra parte non è possibile liberare sale operatorie, e sollevare medici e anestesisti dall’urgenza di praticare interruzioni di gravidanza (IGV) per occuparsi delle altre procedure mediche: e si sta parlando di «circa 52.700 procedure ospedaliere annullate o evitate». Come testimonia LifeSiteNews, per gli aborti si stanno prenotando appuntamenti esattamente come prima della pandemia e le procedure vengono portate a termine anche per le pazienti positive al test del CoViD-19, con rischi evidenti per il personale sanitario e per l’intera struttura coinvolta. Addirittura, un non meglio specificato ospedale dell’Ontario sta praticando aborti settimanalmente «riducendo significativamente il numero di interventi chirurgici per cancro al seno, al colon, al fegato e alla pelle». L’attesa massima per una IGV è di due settimane, mentre i pazienti oncologici possono invece attendere a tempo indeterminato. Campaign Life Coalition, associazione canadese pro-life e pro-family, esprime disgusto per il fatto che «gli aborti elettivi […] sono prioritari rispetto ai veri trattamenti medici» e si domanda se la politica di governo voglia davvero dire «alle donne ammalate di cancro al seno che i loro interventi chirurgici sono meno “essenziali” di qualcuno che vuole uccidere il bimbo che porta in grembo».

In Argentina l’aborto vien di notte

Come racconta The Time, Ruth Zurbriggen, docente universitaria argentina, trascorre il tempo libero «aiutando altre donne ad abortire in un Paese in cui la procedura è legale solo in alcune circostanze». Il coronavirus non ha certo fermato il suo “passatempo”, ma l’ha costretta a uno spiacevole inconveniente: le donne, bloccate in casa a seguito delle misure restrittive che impediscono la diffusione dell’epidemia, hanno spesso bisogno di parlare di notte, per non farsi sentire dai partner o dalla famiglia. Perciò Ruth, tra i fondatori di Socorristas en Red, associazione di più di 500 attivisti “pro-choice” sparsi sul territorio argentino, sacrifica il sonno per “aiutare” le donne a districarsi in un sistema sanitario che permette l’aborto solo in caso di stupro o di “rischio per la salute della madre”. Scopo dell’associazione è aumentare il numero di aborti nel Paese, nonostante le leggi restrittive.

Le difficoltà causate dall’epidemia, sia in termini di personale medico non disponibile a eseguire aborti perché impegnato nell’emergenza, sia in termini di restrizione degli spostamenti, genera parecchie difficoltà anche alle pratiche di aborto clandestino, in un Paese in cui si stima che solo il 20-25% degli aborti effettuati sia legale. Ecco dunque Ruth, con le sue compagne “soccorritrici” impegnate nell’evitare che le donne usino metodi improvvisati per interrompere la gravidanza durante il lockdown, non già accompagnando la fragilità della donna inaspettatamente incinta, ma «organizzando una videochat con un “accompagnatore” […] che consiglia la donna sui luoghi dove ella possa cercare un medico che prescriva misoprostol», il farmaco abortivo che gli attivisti l’aiuteranno ad assumere, offrendo il loro prezioso “supporto emotivo”. Anche loro attivi su Facebook, perché a nessuna donna sia negata la “migliore informazione possibile” su come disfarsi di un figlio.

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