Last updated on Gennaio 28th, 2021 at 01:05 pm
Viviamo tempi strani, in cui è diventato di moda parlare male della proprietà privata in un gioco dove, paradossalmente, sono quelli che ne detengono molta a eccellere. Contro ogni irrealistico pauperismo è invece importante ricordare, alla scuola di san Tommaso d’Aquino (1225-1274), che «un po’ di avere è necessario per ben essere»: la persona, costituita non solo di anima bensì anche di corpo, ha per natura necessità radicale di possedere qualcosa. La famiglia, poi, ha sempre trovato nella proprietà di alcuni beni, a partire dall’abitazione e dagli attrezzi del lavoro, un usbergo imprescindibile a tutela della propria autonomia, dignità e libertà.
La proprietà privata dei beni, non solo di consumo ma anche di produzione, è necessaria affinché la ricchezza si moltiplichi in modo ordinato, pacifico e diffusivo, consentendo a tutti, con il frutto del proprio lavoro e ingegno, di migliorare le condizioni di vita, anche materiali, di se stessi e della propria famiglia, oltre che di aiutare il prossimo bisognoso. Una pre-condizione, questa, affinché tutti i volenterosi possano impegnarsi per ascendere socialmente, fino a potere diventare anche imprenditori, se ne hanno la vocazione. La storia economica, in tutti i Paesi, presenta il ruolo essenziale delle “famiglie imprenditoriali” per la creazione di ricchezza e di lavoro, a beneficio diretto o indiretto di tutta la comunità.
Abolizione della proprietà privata
La proprietà privata è un diritto naturale antecedente allo Stato. È talmente importante che, nel Manifesto del Partito Comunista, del 1848, Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) riassumono la dottrina comunista proprio nell’«abolizione della proprietà privata» borghese, l’«ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell’appropriazione dei prodotti sulla base degli antagonismi di classe, dello sfruttamento degli uni sugli altri».
L’obiettivo finale vagheggiato dai due ideologi è quello di creare un mondo nuovo, dove ‒ scrive Marx nella Critica del programma di Gotha, del 1875 ‒ «finalmente la società potrà scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». Come sia finita è noto: l’utopia del Paradiso in Terra si è convertita in un Inferno per molte nazioni; l’eguaglianza universale si è trasformata in una condizione generale di miseria e abiezione con una concentrazione inaudita di ricchezza e potere nella nomenklatura; il sogno della libertà è divenuto l’incubo della schiavitù; il mito della fratellanza è morto nei gulag e nei laogai, dall’Unione Sovietica alla Cina, da Cuba alla Corea del Nord.
Chi ama i poveri ama la proprietà
La proprietà privata, ovviamente, non è solo un diritto, bensì anche un dovere. Solo la cura particolare può consentire una crescita ordinata e la ricchezza diffusa è meglio gestita di una proprietà comune. Si realizza così la funzione sociale della proprietà, nella prospettiva di quell’universale destinazione che è uno dei fini intrinseci dei beni terreni.
Chi ama l’ordine, la crescita e i poveri è a favore della proprietà privata, e vorrebbe che la proprietà fosse sempre più diffusa onde rendere le famiglie e le società più stabili e resilienti. Solo riconoscendo e proteggendo il diritto naturale alla proprietà privata si rispetta davvero il lavoro delle persone, consentendo quella solidarietà intergenerazionale che è resa possibile dalla famiglia, prima scuola di socialità e di responsabilità, essenziale all’edificazione e alla tenuta della società, in particolare nei momenti difficili.
La nuova tassa
Ora, la proprietà privata non è minacciata solo nei Paesi comunisti. In Italia e nelle altre social-democrazie europee una fiscalità esosa e iniqua è da decenni uno dei più grandi nemici della proprietà, a detrimento dell’autonomia della famiglia e dell’esercizio della libertà di iniziativa economica, che è componente importante della libertà tout court.
Negli ultimi dieci anni si sono poi aggiunte nuove minacce, in tutto il mondo sviluppato, molto meno evidenti. Anzitutto la mancata remunerazione dei risparmi a seguito delle politiche monetarie ultraespansive che le Banche centrali di tutto il mondo stanno perseguendo, a partire dalla Grande crisi finanziaria del 2007-2009, con l’obiettivo di stabilizzare quell’enorme mole di debito, pubblico e privato, accumulatosi nel mondo proprio a causa di tali politiche: un cane che si morde la coda.
Oltre ai tassi di interesse nominali nulli o negativi (controsenso logico prima che finanziario), le Banche centrali stanno ora manovrando per imprimere dinamiche inflazionistiche allo scopo di far salire i prezzi del carrello della spesa. Con un tasso di inflazione del 2% e una remunerazione nulla del risparmio, ogni anno il potere d’acquisto dei risparmi accumulati scenderebbe di circa il 2%: pare poco, ma in 10 anni significherebbe avere perso oltre il 20% del proprio capitale. Si è, insomma, alla vigilia dell’introduzione di una nuova “tassa” sulla classe media, non approvata da nessun parlamento, che si potrebbe denominare RRN, Rendimento Reale Negativo. Come se non bastasse l’oppressione fiscale e contributiva a cui già si era abituati.
La pratica conferma il principio
Le dinamiche finanziarie sopra accennate sono una violazione del diritto di proprietà privata, quindi una minaccia ulteriore alla tenuta della famiglia.
Sì, perché gli attacchi alla proprietà sono sempre anche attacchi alla famiglia, oltre che alla libertà. E viceversa, si pensi solo alle pesanti conseguenze economiche della crisi della famiglia e della natalità negli ultimi decenni: dall’impoverimento conseguente ai divorzi (incremento dei costi per la duplicazione delle spese di abitazione, riscaldamento e bollette varie) al costo sociale della denatalità, che rende sempre meno sostenibile il sistema pensionistico e sanitario, il tutto scaricato su una base produttiva in progressiva e forte contrazione.
La famiglia ha bisogno della proprietà e la proprietà ha bisogno della famiglia: il fatto che motivazioni di ordine pratico e “prosaico” siano coerenti con tematiche di principio e morali non è altro che una conferma della naturalità di un ordine di quella “comunità di destino” imprescindibile in cui si apprende la logica del dono, della solidarietà reale e non ideologica, della responsabilità e della laboriosità, e quindi dell’autentica libertà.
Il nuovo dio, lo Stato
Famiglia, proprietà privata e libertà: una triade sempre più minacciata dalla cultura dominante. La stessa pandemia in corso, infatti, è vista come una straordinaria occasione per imprimere un’accelerazione verso una governance mondiale, in cui élite tecnocratiche, spesso espressioni di capitalismo clientelare, decidono i fini e controllano i mezzi, minacciando contemporaneamente famiglia, proprietà e libertà.
L’impressione è che si voglia andare verso un “socialismo bonario” del secolo XXI, un futuro distopico assistenzialistico ostile alle logiche sussidiarie, dove persino gli Stati nazionali dovranno fare un passo indietro, non già a beneficio della società civile, bensì nella prospettiva di una guida sempre più lontana dalla vita autentica delle famiglie, dei corpi intermedi, delle nazioni stesse.
Nei Lineamenti di filosofia del diritto, il filosofo idealista tedesco George W.F. Hegel (1770-1831) vagheggiava uno Stato inteso come un «Tutto etico […], il cammino di Dio nel mondo […], la potenza della Ragione realizzantesi come volontà»: qui sembra che si voglia andare persino oltre. Diffidare, allora, di chi parla male della proprietà, in genere di quella degli altri. Di chi vaneggia di «decrescita felice», di “inclusività” sociale a mezzo di politiche redistributive e livellatrici. Chi osteggia la proprietà e la crescita è nemico del lavoro, della famiglia, della dignità e della libertà. Un po’ di avere è davvero necessario per ben essere.