Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:33 pm
La Cina è fin troppo vicina anche sul fronte dell’espianto di organi. Là si sottraggono a condannati a morte per reati di “opinione”, alcuni ancora vivi, alimentando un mercato nero enorme e turpe, in Occidente invece le vittime non vengono fucilate, bensì sottoposte a eutanasia.
La triste avanguardia, tanto per cambiare, spetta a Canada, Belgio e Paesi Bassi. Al punto che, ormai, nella comunità medico-scientifica il dibattito non verte più sulla liceità o meno dell’uccisione di un paziente, ma su quale sia il protocollo eutanasico ideale: in ospedale o a domicilio? Ovviamente lo scrupolo morale non riguarda il morituro, quanto l’idoneità degli organi da espiantare.
Qualche tempo fa la rivista JAMA Surgery si è schierata senza mezzi termini per l’eutanasia domiciliare. «Affermare che l’eutanasia debba avvenire in ospedale», argomenta l’articolo, «non tiene conto dei desideri più profondi di questi donatori: esseri umani malati, stanchi dell’ospedale, che hanno deciso di porre fine al proprio dolore nel comfort e nell’intimità della propria casa». Al contrario, «sostenere la necessità di una degenza ospedaliera allontanerà molti potenziali donatori».
Inoltre, afferma il periodico scientifico, è sbagliato «contrapporre gli interessi dei pazienti trapiantati agli interessi dei donatori di eutanasia e viceversa». In definitiva, aggiunge l’articolo, «i nostri pazienti meritano di meglio».
La procedura “mista” cui fa riferimento JAMA Surgery consiste nella sedazione in casa, cosicché il paziente perde coscienza di sé, ma le sue funzioni vitali rimangono inalterate. È soltanto in seguito al trasporto in ospedale che avviene l’induzione al coma e l’inizio della fase agonica. Una volta condotti in ospedale, i pazienti destinati all’eutanasia vengono trattati con l’eparina, che aiuta a mantenere vitali gli organi. Poi ricevono un cocktail di farmaci che li aiuteranno a morire. In Belgio questa procedura viene seguita da tre medici indipendenti, che dichiarano poi la morte secondo criteri cardiorespiratori.
In quel Paese nordeuropeo così come nei Paesi Bassi lo scenario è ulteriormente complicato dal fatto che l’eutanasia è consentita anche per le persone affette da malattia mentale (leggasi depressione).
La stessa possibilità sarà ora prevista in Canada, dove, oltretutto, un paio di anni fa, s’infiammò il dibattito sulla possibilità di espiantare gli organi prima e non dopo l’ultimo battito cardiaco. Uccidere una persona malata nella mente, ma non nel corpo può diventare un incentivo per la “buona causa” della donazione degli organi. Con tutta la speculazione che può nascerne, senza trascurare lo snaturamento della funzione psicoterapeutica, la quale, invece di restituire al paziente l’amore per la vita, potrebbe essere indotta a farlo desiderare la morte per magari accompagnarlo del trapasso.
Così facendo, però, si allargano le maglie della liceità dell’omicidio: non più soltanto “casi estremi” di pazienti terminali o in stato di estrema sofferenza ma anche per “semplici” disagi psicologici, che, in quanto tali, sono tutt’altro che irreversibili. E dietro si profila l’ennesima mistificazione su cui si sta richiamando l’attenzione da un po’: cambiare nome alle cose per farle digerire, ribattezzarle per rendere accettabili culturalmente, moralmente e quindi giuridicamente, persino le più nefaste e aberranti.
Si apre, però, a questo punto, un dilemma destinato a dividere gli eutanasisti: quanto può effettivamente soffrire una persona non terminale rispetto a chi, da mesi o anche da anni, patisce dolori inenarrabili? Fin dove si spingono le frontiere della “morte con dignità”? Alcuni bioeticisti pro-choice arrivano a parlare di «suicidio razionale». Tra quanti si soffermano sullo spartiacque morale del suicidio assistito per i malati mentali c’è persino l’ultrà dell’eugenetica, il filosofo australiano Peter Singer. «Non ci possono essere dubbi sul fatto che alcune persone malate di mente non siano aiutate dai trattamenti e soffrano molto», sostiene Singer, traendone un’unica conclusione: solamente il paziente può stimare quanto «insopportabile» sia la propria sofferenza. Affermazione quantomeno ambigua, questa, dal momento che una persona psicologicamente fragile è, per definizione, più facilmente condizionabile – quindi meno libera nella scelta – rispetto a una persona nel pieno controllo delle proprie facoltà.
La finestra di Overton, dunque, si spinge sempre più avanti e determina ulteriori dubbi e lacerazioni tra i sostenitori dell’eutanasia, sempre più spaccati tra estremisti e (sic) “moderati”. Un pro-lifer, da questo punto di vista, non è assillato dagli stessi dubbi: l’opzione per la vita semplifica tutti i ragionamenti, implicando l’unico vero sforzo nei “buoni argomenti”. Spremersi le meningi sull’opportunità di sopprimere un malato di mente è insomma fatica sprecata. Optare per la vita di chiunque paga invece sempre. Anche perché l’unico vero modo per alleviare una sofferenza è accettarla.