Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:03 am
«Dai che forse riusciamo ad essere un paese civile, dai dai sù». Così twitta un utente, commentando il passaggio del «Ddl Zan» che prevede fino a quattro anni di carcere per chi commette un reato di omotransfobia. No, non è l’assenza d’amore per la lingua italiana il problema principale. E non lo è nemmeno la foga manettara. Lo è, piuttosto, la furia ideologica che invade i social mentre la proposta avanza verso la votazione. Una furia condivisa da milioni di persone? No. Come sempre si tratta di pochi utenti, ma “buoni”.
“Buoni” perché agguerriti, “buoni” perché sempre sul pezzo, “buoni” perché a scorrerne i profili social sembra quasi che la difesa del politicamente corretto sia un lavoro full-time ben retribuito, “buoni” perché sostenuti dalle multinazionali più importanti, che in questi giorni hanno prontamente tinteggiato d’arcobaleno i propri loghi.
Il metodo è sempre lo stesso: si condividono articoli con aggressioni definite “omotransfobiche” e si invoca una legge che ponga presto fine a tutta questa violenza. «Insulti omofobi e botte, venticinquenne con la mascella rotta. Caro ragazzo, se non sarà fatta giustizia puoi ringraziare CEI, Amato, Pillon e Adinolfi, detrattori della legge contro l’omofobia», scrive un altro utente. Così si può continuare disinvoltamente ad augurare la morte a questi “cattivi”.
Etichettare è più semplice
Si consenta però una precisazione ovvia e banale. Un ragazzo è stato preso a pugni? Ebbene, l’aggressore è un delinquente, un pazzo, un soggetto pericoloso. Sarebbe un soggetto pericoloso se prendesse a pugni un ragazzo perché lo considera antipatico, o perché lo vede sovrappeso, o perché non sopporta il colore dei suoi vestiti, o perché considera inferiori le persone disabili. E l’ordinamento italiano da secoli punisce la violenza. La ferita da sanare è tutta qui, nell’affermare con decisione che «non esistono vite non degne di essere vissute».
Ma il soggetto sono le persone, è la vita, non le etichette. Oggi invece tutto deve ruotare attorno alle etichette. Etichette utilizzate per zittire, per esempio «J.K. Rowling ha posizioni transfobiche», oppure «Costanza Miriano è cattolica integralista e omofoba», oppure ancora «Il cardinal Robert Sarah è un conservatore oscurantista contrario ai nuovi diritti», senza dimenticare «Lorella Cuccarini è una pericolosa sovranista».
È facile provare antipatia a pelle o quantomeno sospetto a sentire una presentazione del genere. E l’effetto è presto servito, quando sui social questi nomi vengono automaticamente associati a etichette negative. Entra insomma nel linguaggio parlato l’idea che la Rowling sì, abbia scritto qualche buon libro, ma in fondo sia una persona terribile, perché transfobica. Chi l’ha detto per primo? Chi l’ha deciso? Cosa ha detto o fatto per essere considerata transfobica? No, non c’è tempo per le domande e le ricerche. Dunque, meglio non comprare più nulla che abbia il suo nome in copertina.
Le etichette però vengono anche utilizzate per promuovere, per esempio un’azienda, che oggi non può fare a meno di presentarsi come «aperta, inclusiva, vicina alle battaglie LGBT+».
Addirittura il profilo social de La Stampa, storico quotidiano fondato nel 1867, da sempre espressione di poteri certamente robusti, si è tinto di arcobaleno, a ricordare che sì, la stampa deve raccontare la realtà senza lasciarsi influenzare, ma ogni tanto un’eccezione è concessa. Il risultato ha anche tratti comici: chi ha giudicato calante e scontata l’interpretazione di “Almeno tu nell’universo” proposta da Tiziano Ferro all’ultimo Sanremo si è visto dare dell’omofobo.
Puoi dire tutto ciò che penso io
Non puoi sentire diversamente da ciò che il pensiero unico vuole. Non puoi pensare diversamente da ciò che il politicamente corretto impone. E ciò, soprattutto sui più giovani frequentatori dei social, che sono maggiormente abituati a una comunicazione sintetica, non argomentata e fatta di slogan e frasi fatte, ha effetti non solo devastanti nei confronti dello sviluppo del pensiero critico, ma anche soffocanti sulla capacità di riconoscere la varietà del reale. Costruire un mondo pieno di etichette dove i buoni, gli inclusivi, ripetono sempre slogan sull’amore universale e non stonano mai, non sbagliano mai, dove ognuno può sentirsi accettato qualsiasi cosa dica di essere e qualsiasi cosa proponga di fare, un mondo dove ogni sentimento può essere amore, ogni relazione famiglia, ogni desiderio diritto, significa volere un mondo terribile, triste e grigio.
Perché l’uomo non è costituito da etichette, non è solo luce e ombra, non è tutto giusto o tutto sbagliato. Perché questa realtà rassicurante e confortevole non può bastare, diventa presto una prigione dorata soffocante, come le prigioni scintillanti dei grandi divi circondati da schiavi accondiscendenti, da yes-men. Anche la stessa etichetta prolife è utile per la sintesi ma è limitante, dietro ad “iFamNews” infatti ci sono persone che condividono ideali grandi, ma che spesso hanno anche visioni, sollecitazioni, sensibilità e linguaggi differenti.
Alzare muri contro il pensiero libero
Sì, si può difendere la dignità della vita umana, la famiglia e la libertà religiosa, ed essere persone gentili ed educate, con le quali è piacevole condividere una pizza o un concerto. Si può non apprezzare tutti i film di Pier Paolo Pasolini, non approvare le sue scelte personali pur avvertendo il suo dolore, eppure riconoscere la potenza dei suoi scritti profetici.
Si possono giudicare ideologiche le esibizioni con bandiere arcobaleno di una icona LGBT+ come la cantante Kylie Minogue, riconoscendo però allo stesso tempo la forza del suo vibrato, la sua intonazione perfetta (ascoltare la sua cover live di There must be an angel per credere).
Volere il carcere per chi non si allinea al pensiero unico non è solo una ferita mortale alla democrazia, alla libertà di pensiero e di parola, alla libertà di stampa, al dialogo, al dibattito pubblico. È anche gonfiarsi da soli una bolla di protezione, nella quale far entrare solo quei pezzi di realtà che rassicurano, che confermano le proprie opinioni, che silenziano i dubbi.
È perdere l’opportunità dell’incontro con l’altro, innalzando spessi muri di protezione da chi si considera diverso semplicemente perché ricorda, ad esempio, che manipolare una donna per ottenere un figlio è sbagliato. O perché si permette di appuntare che, se la solidarietà è il nuovo motore di tutto, allora deve essere applicata subito alle persone più fragili e indifese, come i bambini, come gli anziani, come le persone con disabilità, come le persone che lottano con una grave patologia.
Dire no al «ddl Zan» significa dire sì all’unicità di ciascuno, sì al dialogo senza preconcetti, sì all’incontro senza pregiudizi. Significa riscoprirsi persone.