Danni e fallimenti del reddito di cittadinanza minuto per minuto

Dopo tre anni e mezzo il bilancio fra costi e risultati è negativo. Tra demagogia e clientelismo, il conto per il contribuente è molto salato

Il ministro Luigi di Maio, "padre" del reddito di cittadinanza

Il ministro Luigi di Maio, "padre" del reddito di cittadinanza

Il «reddito di cittadinanza» all’italiana (RdC) non corrisponde a quanto si indica generalmente con questa terminologia. In letteratura, infatti, si parla di «reddito minimo garantito», «reddito di base» o «reddito minimo universale» (in inglese «Universal Basic Income», UBI). Tutti hanno sfumature varie e applicazioni differenti, ma alcuni punti restano fermi per tutti.

Rispetto alla variante italiana, nell’UBI si fa generalmente riferimento a un’erogazione monetaria periodica, tipicamente mensile, a partire da una certa età e per tutta la vita, distribuita a tutti i cittadini, che lavorino oppure no, senza riferimenti né alla situazione familiare né alla posizione patrimoniale e reddituale di chi la percepisce. Insomma, una “paghetta pubblica” mensile “non condizionata”, a pioggia, uguale per tutti.

Nella versione italiana, invece, la misura si configura come un semplice ammortizzatore sociale, perché versato solo a disoccupati, inoccupati o lavoratori che presentino un indice ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente) inferiore a una determinata soglia. Viene quindi erogato non a ciascun individuo, ma solo a un singolo rappresentante di ciascun nucleo familiare, con una cifra che varia in base alla situazione patrimoniale-reddituale della famiglia stessa.

Specchietto per le allodole

Nel RdC italiano sono previsti obblighi, come iscriversi a un centro d’impiego, svolgere senza ulteriore compenso lavori di pubblica utilità e accettare, dopo un certo numero di rifiuti, proposte di lavoro ritenute congrue, con l’obbligo di assistenza di alcune figure assunte per coadiuvare gli altri a trovare un impiego, i cosiddetti navigator. Per potere accedere al sussidio occorre poi presentare domanda, correlata da documenti e certificazioni, e quindi sottoposta alla verifica del rispetto dei requisiti previsti.

Il motivo per cui il Movimento Cinque Stelle (M5S) aveva scelto in origine di usare la terminologia «reddito di cittadinanza» era l’appeal dell’espressione, ovviamente nella prospettiva di acquisire un consenso elettorale facile. Almeno da questo punto di vista, la misura è stata efficace e ha consentito ai pentastellati di andare e di rimanere stabilmente al governo del Paese.

Ma con quali risultati? Partiamo dall’origine. Dai dati contenuti nel Rapporto Annuale ISTAT 2022 emerge una situazione di povertà assoluta nel 2021 grave ma stabile rispetto al 2020, che riguarda poco più di 1,9 milioni di famiglie (con un’incidenza pari al 7,5%) e 5,6 milioni di individui (9,4%).

Il Paese non cresce da decenni e si trova ora anche alle prese con una forte ripresa dell’inflazione, la quale rischia di far peggiorare la situazione: a nulla è servito il sussidio e non si nota la benché minima inversione di tendenza, nonostante – e, forse, a causa – dell’estrema onerosità delle erogazioni effettuate, che si sono inevitabilmente scaricate sulla classe media e medio-bassa.

Obiettivo mancato

Dai dati disponibili nel XXI Rapporto annuale INPS emerge che, considerando sia il RdC sia la Pensione di Cittadinanza (PdC), «nei primi 36 mesi di applicazione della misura hanno ricevuto il pagamento di almeno una mensilità 2,2 milioni di nuclei familiari in cui complessivamente risiedono 4,8 milioni di persone, per un’erogazione totale di quasi 23 miliardi di euro (Tabella 4.9)».

Per il solo RdC «a marzo 2022, l’importo medio mensile erogato è stato di 577 euro […] A fronte di 1.223.146 nuclei beneficiari, il numero di persone coinvolte è 2.703.979», con un costo tendenziale annuo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Emerge anche che i nuclei familiari sono sempre più piccoli, e tra i percettori del sussidio sono preponderanti le “famiglie” monocomponenti (con un‘incidenza pari al 41%).

Il problema principale del provvedimento non risiede tanto sul fatto che si sia prestato a prevedibili casi di abusi e di clientelismo, ma perché esso non ha raggiunto minimamente lo scopo di favorire l’integrazione nel mondo del lavoro. Anzi, molte aziende riscontrano difficoltà crescenti a trovare personale, in specie nel settore della ristorazione e nelle attività stagionali, per la concorrenza sleale del sussidio. A conti fatti, con la paghetta di Stato e qualche lavoro in nero si riesce infatti a incassare di più e a faticare di meno. Il paradosso è che ora bisogna preoccuparsi anche dei 1.886 navigator rimasti dei 3mila che furono assunti nel 2019, mentre alla Camera il Centrodestra, per limitare i danni, ha proposto un emendamento che consideri congrua la “chiamata diretta” degli imprenditori ai percettori del sussidio, in modo da smascherare chi non sta davvero cercando un lavoro.

Scassa del Mezzogiorno

Ora, un sussidio di fatto permanente e così strutturato contribuisce inevitabilmente ad accrescere il divario fra Nord e Sud, vista la grande differenza del costo della vita nei “due Paesi”, e a pagarne le conseguenze sono soprattutto i giovani meridionali, i quali rischiano di assuefarsi al sussidio pubblico sprecando i propri anni migliori.

I beneficiari del sussidio sono infatti concentrati per l’85% nel Centro e nel Sud, in particolare in Campania e in Sicilia. Il collegamento con il bacino elettorale del M5S è peraltro evidente e infatti il partito rivendica il successo dell’iniziativa, che rimarrà come un’ipoteca pesante sul futuro del Paese. E tornare indietro sarà probabilmente impossibile, quindi i contribuenti dovranno rassegnarsi.

La soluzione

Più che inventarsi sempre nuovi meccanismi redistributivi bisognerebbe allora concentrarsi sul far crescere la produttività e quindi la torta della ricchezza. A tal fine è essenziale che non si inceppi il meccanismo della cooperazione libera tra le persone e che i frutti del lavoro siano lasciati il più possibile a chi li produce, affinché siano poi goduti e reinvestiti a vantaggio indiretto di tutti.

Il Premio Nobel per l’economia Milton Friedman (1912-2006) ammoniva così sui rischi di politiche fortemente redistributive: «Se tu paghi la gente che non lavora e la tassi quando lavora, non essere sorpreso se produci disoccupazione». Contro ogni demagogia solidaristica, occorre ricordare poi che la scarsità non è eliminabile radicalmente: come scriveva il filosofo-contadino francese, Gustave Thibon (1903-2001), «per voler spartire tutto con tutti, bisogna essere Dio – oppure avere solamente del nulla da offrire. Anziché un nuovo passo in avanti, gli Stati dovrebbero cioè farne due indietro, per passare dalla solidarietà obbligatoria gestita politicamente alla ripresa delle iniziative di solidarietà volontaria dei privati, con l’obiettivo di passare gradualmente dal welfare state alla welfare society. Per non cadere vittime della promessa di sicurezza garantita dall’alto occorre insomma ricuperare la prospettiva secondo cui l’uomo è faber suae quisque fortunae.

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