Last updated on Febbraio 24th, 2021 at 12:46 am
In tempi di pandemia rischiano di esserci più malati che nascituri. E così anche gli ospedali si adeguano alle esigenze: via i reparti di ostetricia e di ginecologia per far posto a quelli dedicati ai pazienti CoViD-19. Succede in un ospedale pubblico di Palermo, il «Cervello», e in una clinica accreditata della capitale, il «Città di Roma».
La raccolta firme
Nel capoluogo siciliano la questione ha portato a una raccolta firme. Il mese scorso, poche ore dopo l’annuncio della chiusura, è stata lanciata sulla piattaforma “Change.org” una petizione dal titolo eloquente: «Sì alla Vita! Salviamo il reparto di ginecologia dell’ospedale “Cervello” di Palermo».
I promotori dell’iniziativa denunciano: «Ad un anno dall’emergenza sanitaria è inconcepibile che le istituzioni preposte non abbiano trovato una soluzione idonea e che, per questa inefficienza, a farne le spese sia la comunità». E ancora: «Si parla tanto di coscienza civica in questo momento e si richiama al senso di responsabilità la popolazione ma questo non può avvenire solo a senso unico e oggi ci ritroviamo ad assistere a una decisione insensata che non rispetta operatori sanitari, utenti e cittadini».
Gravidanze a rischio
Al «Cervello» si facevano oltre 1.500 parti all’anno, spiegano i promotori della petizione. I quali sottolineano, inoltre, che questo nosocomio tratta principalmente casi a rischio e che è strettamente collegato alla rianimazione neonatale più importante di Palermo. «Quindi con questa chiusura si mette a rischio la sicurezza materno-infantile per impossibilità di pronto intervento», osservano.
A oggi sono oltre 20.500 le firme raccolte. Mobilitate anche le mamme. «Il reparto che si intende chiudere», scrive in una lettera inviata a PalermoToday una di loro, Alessia Tumminello, «è un punto di riferimento insostituibile essendo l’unico presente nella zona Nord del capoluogo, avente peraltro i migliori operatori sanitari specializzati nel trattare gravidanze ad alto rischio».
L’ira dei sindacati
Secondo i sindacati Cimo-Fesmed, Fials-Confsal e FVM/Fials ADMS, il direttore generale di Villa Sofia-Cervello avrebbe provveduto a chiudere il reparto di Ostetricia e a sospendere l’attività di Pronto Soccorso Ostetrico sulla base di indicazioni dell’assessorato alla Salute. «Ciò significa che l’Azienda Ospedaliera ha abdicato alla propria autonomia decisionale e organizzativa, ovvero che l’Assessorato abbia indebitamente interferito con la stessa, quando avrebbe dovuto limitarsi a fornire gli input per l’attivazione di ulteriori posti letto Covid senza indicarne la modalità», denunciano i sindacati.
Il caso di Roma
Da Palermo a Roma. Lo sconcerto di una lavoratrice, raccolto da Fanpage, dà la cifra della situazione: «È successo tutto molto in fretta. Sono andata al lavoro e il direttore sanitario ci ha detto che Città di Roma sarebbe diventata centro Covid. Non ci ha comunicato date precise, non sapevamo quando lo sarebbe diventata. Hanno chiuso l’accettazione di ostetricia, domenica è stata chiusa la clinica quando l’ultima paziente è stata dimessa. E noi ci siamo trovate di punto in bianco senza lavoro». A farne le spese sarebbero state le ginecologhe e ostetriche a partita iva, spiega sempre a Fanpage un delegato sindacale. L’intero reparto, dove ogni anno partorivano circa 1.200 donne, spostato all’ospedale San Camillo. La Regione Lazio ha parlato di una «acquisizione davvero importante» in chiave di lotta al CoViD-19.
Incubo denatalità
È amara la considerazione cui giunge la lavoratrice del Città di Roma intervistata da Fanpage: «La verità è che per i malati CoVID-19 prendono più soldi rispetto a un neonato». Ma c’è anche un’altra verità: i nuovi nati sono sempre meno. Se già un anno fa, in epoca pre-pandemica, gli indicatori demografici pubblicati dall’ISTAT sembravano un bollettino di guerra, oggi la situazione è ancora più allarmante. Il combinato disposto tra virus e denatalità è una «tempesta perfetta».
Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’ISTAT, ne indica due aspetti simbolo: «Il margine superiore dei 700 mila morti ‒ oltre il quale nell’arco degli ultimi cent’anni ci si è spinti giusto all’inizio (1920) e quindi nel pieno dell’ultimo conflitto mondiale (1942-1944) ‒ e il limite inferiore dei 400mila nati, una soglia mai raggiunta negli oltre 150 anni di Unità nazionale. Si tratta di due sconfinamenti che, di riflesso, spingerebbero il valore negativo del saldo naturale oltre le 300mila unità».