Coronavirus, considerazioni di seria umanità

Stare in casa costringe a fare i conti con inquietudine e significato. Ma solo così si può amare la vita

Auto isolamento coronavirus

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Last updated on marzo 30th, 2020 at 06:02 am

«Si deve evitare di uscire di casa. Si può uscire per andare al lavoro o per ragioni di salute o per altre necessità, quali, per esempio, l’acquisto di beni necessari. Si deve comunque essere in grado di provarlo, anche mediante autodichiarazione che potrà essere resa su moduli prestampati già in dotazione alle forze di polizia statali e locali. La veridicità delle autodichiarazioni sarà oggetto di controlli successivi e la non veridicità costituisce reato». Con l’ultimo decreto per contrastare il contagio da coronavirus, che ha reso l’Italia intera zona rossa, blindando le persone in casa, è cambiato tutto. Da settimane i contagi crescevano, i medici lanciavano l’allarme, gli ospedali reggevano a fatica l’urto, i supermercati erano presi d’assalto. Da settimane, anzi, più precisamente dal 23 febbraio, in Lombardia erano state addirittura sospese le Messe con concorso di popolo. Una misura che non si ricorda nella storia recente della Chiesa.

Eppure, è stato necessario chiudere i bar e le pizzerie, limitare esplicitamente le attività sportive all’aria aperta, minacciare con sanzioni e denunce penali i trasgressori per far comprendere fino in fondo la gravità della situazione. Ora non ci sono più scuse: si sta in casa. E in casa si fanno i conti. Anche con l’inquietudine. Sì, perché la vita contemporanea, con la predominanza del virtuale, con i ritmi frenetici e con l’agenda dettata dalle apparenze, ha un aspetto positivo, rassicurante: nasconde, soffoca l’inquietudine. Quel tarlo abbarbicato nell’animo umano che continuamente morde, gratta, pretende di più. Davanti a un lavoro importante, davanti a una gioia, davanti a una persona cara, l’inquietudine guasta la soddisfazione e riaccende il desiderio. Non mi basta, non è abbastanza, ho bisogno d’altro. Ma di cosa?

Viene anche da qui l’ansia di fronte alla campagna del governo #iorestoacasa, che in pratica chiede l’autoisolamento a tutti, salvo alcuni lavori (ormai pochissime attività) e la spesa o la farmacia: affollare il programma della giornata con impegni per tacitare il tarlo è difficile adesso.

Sono anni che si cerca di limitare la presenza della Filosofia nei programmi scolastici e nella vita, eppure adesso se ne riscopre il valore. Certo, non si passerà la quarantena a studiarla, ma tutti possono cogliere la preziosità del suo motore: le domande di senso. Quelle domande che animavano Socrate (†399 a.C.), che lo spingevano a rischiare la sua stessa vita pur di risvegliare le coscienze dei suoi concittadini. Quegli interrogativi che portarono Immanuel Kant (1724-1804) a smontare la ragione per vederne con i propri occhi gli ingranaggi, senza perdere mai di vista una convinzione potente: «il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». Quell’inquietudine che spinse sant’Agostino d’Ippona (354-430) a mettere in discussione tutta la vita e le scelte, avviando una rivoluzione prima interiore e poi esteriore, che lo ha portato a scrivere Le confessioni, una fotografia dell’anima che ancora oggi interroga.

Bloccati sul divano, quando anche lo smartphone dà la nausea, lo sguardo finisce sulla libreria, che magari conserva ancora i libri dei nonni, dei genitori, libri in altre lingue, romanzi ormai dimenticati, vecchi libri di scuola. Fanno un po’ paura, perché risvegliano il tarlo già solo a guardarli, anche se chiusi fanno tornare alla mente capitoli della nostra vita, e inevitabilmente li mettono in discussione.

Fare i conti con se stessi però non si ferma qui, non si limita a riscoprire una coscienza che a volte tiene lontano Morfeo per richiamare l’attenzione. Fare i conti con l’inquietudine significa allargare lo sguardo e scoprire che oggi c’è una grande emergenza, che precede e che corre parallela a quella del coronavirus: l’umano.

L’umano tralasciato come insegnamento umanistico, l’umano calpestato come domande e sogni, ma soprattutto l’umano ferito come vita fragile e bisognosa di tutto.

Sì, perché in queste settimane di coronavirus non siamo tutti uguali. Ci sono calciatori che ottengono attenzioni, cure e tamponi ancor prima di avvertire sintomi. E ci sono centinaia, migliaia di anziani soli, abbandonati nelle proprie case, terrorizzati all’idea di ammalarsi, abituati ormai a sentire solo due frasi: «le vittime del virus sono principalmente anziani», e «state a casa tranquilli fin quando non avete problemi respiratori gravi».

Ci sono mamme in dolce attesa che sono ancora più indifese nella ressa che in questi giorni si crea nei supermercati, quando dietro le mascherine anche i lineamenti del volto sono nascosti, e diventa più difficile riconoscersi uomini e donne, simili e, per chi crede, fratelli.

Ci sono giovani che sono fuggiti di notte verso casa, due settimane fa la stazione Centrale di Milano è stata nuovamente presa d’assalto, incuranti della possibilità di portare con sé il virus, convinti magari che tanto arriveranno sempre aiuti, anche dalla Cina, diventata improvvisamente nostra amica e maestra di democrazia. Eppure Wuhan, epicentro del contagio, è in quarantena dal 23 gennaio e lo sarà fino all’8 aprile, e la quarantena cinese non è la quarantena italiana.

In questa giungla, ancora una volta il tarlo torna a mordere la coscienza, chiedendo allo sguardo di lanciarsi sul domani: che società uscirà da questa emergenza? Ci sarà ancora posto per le persone più fragili? Sapremo ancora riconoscerci?

Emmanuel Lévinas (1906-1995), filosofo francese di origini ebraiche, pone al centro di tutta la propria speculazione quella che definisce «l’epifania del volto». Tutto passa dal volto, dal riconoscere nei lineamenti l’unicità, dal ritrovare in quei tratti i propri. Oggi, nascosti da mascherine, sciarpe e occhiali, rischiamo di perdere la manifestazione dell’altro, che è l’antidoto più efficace alle spinte individualistiche che dominano cultura di massa, musica e spettacoli degli ultimi decenni.

Un individualismo che, tra l’altro, mostra tutta la propria debolezza in questi momenti drammatici: non può essere solo lo stipendio a far rimanere gli operatori sanitari in ospedale oltre ogni orario immaginabile, non può bastare un premio ai farmacisti che continuano ad ascoltare le paure delle persone cercando di calmarle, non può bastare neanche la promessa della fama ai giornalisti che restano svegli anche di notte pur di scoprire, verificare e raccontare le complessità di questi giorni.

L’inquietudine che ci vuole sempre connessi con il mondo e mai con noi stessi può essere la chiave che fa accedere all’ecologia umana.

Se non ora, se non ridare ora voce all’inquietudine insistente che rompe le uova nel paniere dei pensieri programmati, quando?

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