Last updated on aprile 21st, 2021 at 06:20 am
Il meraviglioso dipinto Madonna col Bambino di Artemisia Gentileschi (1593-1656), artista indiscussa della scuola caravaggesca del Seicento, ritrae una madre assonnata che viene destata dal proprio bambino. Solo una donna poteva essere capace di descrivere la bellezza stanca della maternità, riconoscendone la forza che muove la femminilità della cura della prole. Eppure Artemisia non è mai stata madre.
Il primo inganno: l’infertilità
Di fronte all’impossibilità di mettere al mondo un figlio tante donne non si sono lasciate incasellare nella definizione d’infertilità o peggio in quella di sterilità, di cui la medicina, negli anni, le ha qualificate. Le donne, tali perché ogni cellula del loro corpo pulsa di un bagaglio genetico che riconduce a XX il corredo cromosomico, non sono donne perché possiedono un utero, capace di generare o no. Affermarlo sarebbe ammettere che sante come Lucía dos Santos (1907-2005) o Caterina da Siena (1347-1380) siano state meno donne, poiché non sono state madri. La loro fertilità è stata espressa in ben altro modo, come quella di tante donne che, in tutto il mondo, consacrate o meno, «muovono il bene»: verso la cura delle fragilità, per esempio.
Purtroppo, la mentalità medicalizzata ha usato la sofferenza delle donne infertili, sfruttando il bisogno di protezione e di realizzazione che custodiscono nel cuore. Sappiamo bene com’è andata: le donne sterili, bollate come tali e fatte sentire inferiori da una cultura che deriva dagli slogan del «tutto e subito» e «vietato vietare», hanno ceduto alle lusinghe della “tecnomedicina”, hanno ceduto ai “tecnomedici” il potere sul mistero del concepimento, indotte a pensare che solo possedendo un utero gravido possano identificarsi come parte del mondo che possiede i cromosomi XX.
La seconda bugia: la “solidarietà riproduttiva”
Dall’altra parte altre donne, sfruttate dalle caratteristiche che connotano la femminilità, ovvero dal desiderio di prendersi cura e di solidarizzare con altre donne, sono state private del corpo per “aiutare” queste ultime. I gameti femminili, che le donne non possono produrre in modo infinito come quelli maschili, ma possiedono in numero finito sin da quando esse stesse sono embrioni, sono stati “rapinati” per far felici altre donne.
Se da una parte vi sono persone sofferenti perché indotte a credere che la loro infelicità sia nella mancanza di chi le può chiamare «mamma», dall’altra vi sono persone che, in modo ingannevole, sono costrette a pensare di poter essere d’aiuto alle “colleghe” (in cambio di qualche spicciolo per mantenersi e per sfamare qualche bocca). Dall’alto dei cieli, la “dea tecnomedicina” guida i tecnici della fecondazione extracorporea che aspirano, uniscono, analizzano, sopprimono, congelano. Tutto, dicono, per la felicità. Tutto per i diritti della donna.
Medicina come protezione
La medicina ha afferrato con premura e applicazione i bisogni delle donne, elaborandoli a proprio favore.
Protezione: essere difesa da chi può nuocere, è una caratteristica che potremmo definire fisiologica. Da sempre la donna si allea con le sue simili soprattutto quando vive momenti delicati: la maturità dell’arrivo del menarca, la crescita del corpo e la cura dello status di generatrice di vita. La donna gravida è presa in custodia dalle altre donne: ella mette al mondo la vita e perciò viene aiutata. Che costoro siano madri o meno, questo non è importante: la cura della fragilità è femminile.
Non è un caso che la moderna teoria dell’attaccamento si appoggi a quella degli “schemi motivazionali”, anche definendo come il fatto che una madre sia aiutata nei primi mesi di vita del bambino sia parte integrante della creazione di uno stile di attaccamento sicuro che renda il piccolo sereno e autonomo.
Una falsa soluzione: la tecnomedicina
Tuttavia, sappiamo bene quanto questo bisogno di protezione, sfruttato talvolta inconsapevolmente anche dalla mentalità contraccettiva e abortiva, sia quello che muove l’operatore a intervenire per porre rimedio e trovare una soluzione, sostituendosi alla donna che vive l’angosciante problema se evitare una gravidanza o se eliminare un bambino indesiderato. La tecnomedicina, abituata oramai a sezionare corpi e a non possedere una visione d’insieme della persona umana, interviene.
La denuncia di questo modo di vedere la donna è pressante da più parti: la realizzazione della vita al di là del focolare domestico, gabbia atroce dove le ali della libertà vengono tarpate, è un’idea inculcata con molta attenzione per far sì che la generazione successiva di donne non solo identificasse il proprio utero come una parte a se stante del corpo, quindi positiva o negativa a seconda dell’uso che se ne vuole fare al momento, ma che non avvertisse la responsabilità nei confronti del suo uso.
Il fatto che tantissime donne non solo si privino dell’utero per poter lavorare, ma evitino di fare figli per realizzare la loro vita, denota il fatto che il diventare madre non è più fisiologico, ma si sia trasformato in una patologia: la medicalizzazione della maternità, quella combattuta aspramente da tantissime donne, la medesima che condanna le gravide a interventi chirurgici d’emergenza quando ne potrebbero fare a meno, la stessa che ha insistito perché le donne disimparassero a partorire, cioè a dare la vita attraverso il dolore, quella che ha fatto diventare le donne incapaci di allattare rendendole inadeguate nell’aspetto più normale dell’accudimento, ha plasmato la femminilità verso l’insicurezza. E chi è insicuro lo gestisci benissimo.
La medicalizzazione della condizione femminile
Oggi alle donne è detto che possono scegliere se essere madri o no, e quando esserlo. La medicina è al loro fianco: se desiderano un figlio, se non lo desiderano, se desiderano un figlio unico, se desiderano un figlio sano. Possono scegliere, poiché c’è chi le accudisce, le protegge.
Poi c’è il “carnefice”, il mondo del lavoro e delle ideologie, che usando la patologizzazione della maternità si sente in diritto di non valorizzarla, di non proteggerla, poiché la donna ha compiuto la propria scelta, e «i cocci sono suoi». Ecco il dramma delle “pari opportunità” che tramutano la donna-madre in qualcosa d’inferiore rispetto alla donna non-madre, che può lavorare come un uomo.
La tecnomedicina interviene, smembrando di nuovo la donna e la sua femminilità, dicendole che può congelare i gameti per quando arriveranno i tempi giusti, la persona giusta. Perché la donna non deve distrarsi dalla propria realizzazione, ovvero da quella che altri hanno voluto per lei. Perché, come nel caso dell’infertilità, si dà valore a una donna a seconda dell’uso che ella fa del proprio utero. Quindi una donna sterile non possiede valore se bisogna portare avanti le istanze della tecnomedicina della riproduzione extracorporea, ma possiede un valore immenso se la sua sterilità può far arricchire qualcun altro. O viceversa: il fatto di possedere un utero che alcune persone non possiedono, la rende una miniera d’oro da sfruttare.
Attualmente le donne non solo sono spinte verso una progressiva insicurezza nei confronti di se stesse come parte femminile dell’universo umano, ma subiscono un controllo fatto d’insicurezza, di delega completa ad altri per tutto quello che riguarda la gestione del corpo, della mente e dell’anima, tanto che ci sono donne che battagliano affinché altre donne si privino del ventre e dello spirito per “far felici” altre persone, svendendo ciò che di più sacro possiedono: il legame con il figlio.
Ma ci sono anche donne che acclamano come un diritto quello di ridurre un’altra donna alla capacità di privarsi per sempre della relazione con la persona più importante che esista, il figlio, e di goderne quasi: alla faccia di chi invece soffre per sempre per aver ceduto ovociti, bambini cresciuti nel proprio ventre e aver soppresso il proprio figlio.
Queste possono essere taciute, essere silenziate, essere cancellate in nome del «sostegno alla donna».
Per approfondire:
Jo Croissant, Il mistero di donna, Berica Editrice, 2018
Thérèse Hargot, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), Sonzogno, 2017
Alice Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Bollati Boringhieri, 2008
Elena Spina, Ostetriche e midwives, Spazi di autonomia e identità corporativa, Franco Angeli, 2009
Andrea Robertson, L’ostetrica e l’arte del sostegno durante il parto, McGrow-Hill, 1998
AA VV, Onorare la madre, il puerperio e l’esogestazione, Scuola Elementale di Arte Ostetrica srl, 2006
Mani sul parto, mani nel parto, a cura di Giovanna Bestetti, Grazia Colombo, Anita Regalia, Carocci, 2006