Last updated on Febbraio 17th, 2020 at 04:14 am
Metti una sera a cena un gruppo di adolescenti, di quelli che ti immagineresti si infiammino per Muschio Selvaggio. Hanno dai 14 ai 19 anni, e tutto è nato quando qualcuno ha proposto: «Io cucino la pizza e, mentre si mangia, “parliamo di filosofia”». Filosofia, perché? Perché anche se pochi sanno che il filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.) lo ha scritto nell’Etica nicomachea, «[…] non intraprendiamo questa ricerca per conoscere cosa sia la virtù, ma per essere buoni, altrimenti non avrebbe alcuna utilità» (II 2, 11103 b 26-29).
Il gruppo “Pizza e filosofia” si è poi rapidamente evoluto in “Carboidrati e filosofia”, le cene sono diventate settimanali e il numero dei partecipanti è cresciuto, rendendo necessaria la mobilitazione di un piccolo esercito di mamme vivandiere. “IFamNews” ha il privilegio di parteciparvi e da qui l’idea di parlarne a un mondo più vasto.
Lontanissimo dagli astratti e nichilistici arzigogoli autoreferenziali che qualcuno potrebbe immaginare, quel convivio parla di vita, della vita che stringe, che preme, che si fa domanda chiedendo cose come “la bellezza è oggettiva?”, “esiste la verità?”, “cos’è il desiderio?”, e questo a partire dalle provocazioni, a volte brutali, della cronaca, della realtà. La pretesa, volutamente sproporzionata e mirabilmente spregiudicata, è nientemeno quella che il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre invoca al termine di Dopo la virtù: «La costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi».
L’oscurità del relativismo etico, imposto dal mainstream e docilmente accettato da un’opinione pubblica che sguazza nella sua boccia come un pesciolino rosso, impone l’assenza di una verità assoluta: il giudizio sul vero dipende dai valori morali propri della cultura in cui si cresce, dalle imposizioni delle autorità e in generale dai condizionamenti del contesto in cui si vive. Ma, si domandano i filosofi in erba, se è solo con il proprio criterio di giudizio che si può riconoscere se qualcosa nella vita sia valido, allora una cosa può essere vera per me e non per te?
Esempio: come è possibile che la fustigazione di una ragazza adultera in Indonesia per mano di un giustiziere donna appaia a noi un abominio e invece per una buona parte del mondo sia un gesto doveroso, non solo moralmente accettabile, ma addirittura una “missione” da svolgere, degna di un encomio? Insomma, il male è relativo? E il bene?
Il fine è la felicità
Altro esempio: cosa si potrebbe pensare se qualcuno, appassionato di fotografia e orgoglioso proprietario di una collezione di macchine fotografiche di pregio, decidesse un giorno, trovandosi nella necessità di appendere un quadro in soggiorno, di utilizzare uno dei propri preziosi apparecchi fotografici per piantare il chiodo nel muro? Gli sarebbe dato di volta il cervello. La sua azione sarebbe insensata, e a buona ragione si meriterebbe il titolo di “sbagliata”, oggettivamente. Ma perché?
Il criterio con cui formulare questo giudizio non è un astratto intuizionismo etico, non sarebbe sufficiente neppure una qualsiasi forma di utilitarismo morale. Usare una macchina fotografica per piantare un chiodo nel muro è una azione errata perché l’oggetto viene usato per un fine differente rispetto a quello per cui è stato concepito, producendo un danno. Trattare la realtà, a partire da quella inanimata fino ad arrivare agli altri esseri umani, eliminando la coscienza del fine è un errore e il danno generato da azioni di tal fatta è un male, oggettivo, indipendentemente dal contesto culturale, dalle imposizioni dell’autorità riconosciuta e dei condizionamenti subiti. Il fine di ogni uomo, di ogni singolo essere umano è il raggiungimento del proprio compimento: la felicità.
Quindi è male fustigare un’adolescente perché trovata in una camera d’albergo con un uomo che non è il marito: male per la ragazza punita, che subisce l’azione violenta, e male anche per la donna incaricata dell’esecuzione, nonostante il capo delle guardie abbia valorizzato la qualità tecnica della sua prestazione: «penso che abbia fatto un buon lavoro. La sua tecnica è stata buona».
La ragione impone di dissentire: non esiste un’“azione virtuosa” compiuta per un fine malvagio. Come direbbe Aristotele, «il risultato immediato dell’esercizio delle virtù è una scelta che ha come conseguenza un’azione giusta».