No, non è una frase di circostanza, un mantra che ripetono tutti e che quindi ripetiamo automaticamente, magari un po’ untuosamente anche noi. Noi «buon Natale» lo diciamo, ve lo diciamo sinceramente. Ci fregiamo di chiamare le cose con il nome che hanno, poiché, dice il giornalista e storico vandeano Jacques Crétineau-Joly (1803-1875), la verità è l’unica carità che si può concedere alla storia, e quindi diciamo, convintamente, «buon Natale».
«Natale» è una parola tanto precisa. Vuol dire «nascita». Lo sappiamo tutti e tutti lo dimentichiamo. La meccanicità con cui oggi si dice «buon Natale» (se ancora non siamo tra i caduti in battaglia vittime del «buone feste» o del «Season greetings») ce lo fa dimenticare, facendoci scordare che «Natale» significa qualcuno che nasce. Un giorno dinamico, performante, il Natale: mai statico o stagnante.
La sua dinamicità e il suo essere performante sono un pro memoria. La pretesa del Natale è che quel giorno nasca Gesù, Dio che si fa uomo. L’unico in tutta la storia dell’umanità: l’unica fede, quella cristiana, che pretende che Dio si sia fatto uomo, anzi che pretende che Dio, dinamicamente, in modo performante, si faccia di continuo uomo. Non è infatti solo un anniversario, ma un presente continuo che sa di eternità.
Natale però non è solo per i cristiani, per i credenti. Natale è quel momento della storia in cui il tempo si ferma. Per tutti. Tutti debbono fare i conti con il Natale: ripetendo meccanicamente «buon Natale», scansandolo attraverso il «buone feste» oppure sorprendendosi a interrogarsi su chi diamine sia colui di cui si celebra la nascita oggi, colui di cui il mondo tutto e tutta la storia celebrano la nascita. Anche chi non crede che oggi sia la nascita di Gesù, infatti, si ferma. Si ritrova o si sorprende, senza forse nemmeno più rammentarne il motivo, a sostare: a sospendere il proprio tempo, la propria attività, il proprio lavoro. Sosta. Guarda. Attende. Forse in realtà non attende più, e allora la confusione aumenta, ma una volta tanto è confusione sana. Perché, oggi, questa nascita?
Il mondo intero lo fa, anche a prescindere dalla fede, e appunto è un dubbio sano. Lo fa anche con sufficienza, o menefreghismo, ma lo fa. A volte basta anche questo, perché la serena serendipità della Provvidenza non butta via mai nulla. Ricevo auguri di «buon Natale» da non credenti, da credenti in vie spirituali molto diverse e distanti dal cristianesimo, e ogni volta mi colgo a riflettere su questo stesso fatto. Oggi il mondo intero si piega, persino si inginocchia. A volte la gente s’inginocchia non capendo, solo perché lo fanno gli altri intorno. Ben venga. Questo giorno strano del calendario, di quel calendario che non si usa in ogni parte del mondo ma che se certi amici dissidenti cinesi vogliono interfacciarsi con il mio di mondo sono giocoforza tenuti a usare, quel calendario che per forza, in attesa che sia per amore, anche per loro spacca la storia in due in un prima e in un dopo il «buon Natale».
Natale è la celebrazione della vita che nasce, e noi difendiamo il diritto alla vita umana nascente. Natale è la famiglia che viene additata a modello, e noi difendiamo la famiglia. Natale è la celebrazione di una mamma, di un papà e di un neonato secondo ordine e bellezza, senza né confusioni né sotterfugi, e noi questo difendiamo quotidianamente. Natale è un popolo intero che riconosce un fatto ‒ la nascita, una famiglia ‒ e che per questo di mette in cammino, cioè agisce, costruisce, quando necessario combatte (torna alla mente la Vandea di Crétineau-Joly), e noi questo facciamo. Natale è la libertà di esistere, di esserci, di essere persino Dio fatto uomo. Erode ci credette forse per primo, ed è per questo che scatenò l’omicidio.
Natale non è il giorno, insomma, per essere indifferenti. Per tutto questo, dunque, «buon Natale».