Last updated on Febbraio 15th, 2021 at 04:47 am
«Se avete problemi a capire se state con me o con Trump allora non siete neri!». Il 22 maggio, mentre le elezioni primarie del Partito Democratico erano ancora formalmente aperte, l’oggi presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden, intervistato da The Breakfast Club, canale YouTube di riferimento della comunità afroamericana, sfoderava un’ennesima, clamorosa gaffe. Non male per un personaggio che, già dalle prime battute della campagna elettorale, era accreditato come il candidato con maggiore appeal nell’elettorato di colore.
Ironia della sorte, l’ex vice del primo presidente nero della storia statunitense, Barack Obama, ha del resto alle spalle un rapporto piuttosto controverso con la questione razziale. E lo scivolone dell’intervista a The Breakfast Club, pur non avendo pregiudicato a Joe Biden né la conquista della nomination Democratica, né, quattro mesi dopo, quella della Casa Bianca, è, in un certo senso, rivelatore di certi scheletri nell’armadio.
L’ombra del razzismo
Un anno prima di venire scelta dallo stesso Biden come running mate, l’allora senatrice e oggi vicepresidente Kamala Harris aveva rivolto una pesantissima accusa all’ex senatore del Delaware. Il 27 giugno 2019, in occasione del primo confronto tra candidati Democratici, otto mesi prima dell’avvio delle primarie, la futura vicepresidente aveva rinfacciato a Biden di essersi battuto per il mantenimento della segregazione razziale sugli scuolabus americani. Effettivamente, nel 1975, Biden, allora senatore da due anni, aveva appoggiato un progetto di legge contro il finanziamento pubblico dell’integrazione razziale nelle scuole. Harris la mise quasi sul personale: «[Negli anni 1970] c’era una bambina, in California, che frequentava la seconda e che quotidianamente andava in una scuola integrata con l’autobus. Quella bambina ero io». Biden cercò di difendersi, asserendo che la sua opposizione riguardava soltanto i fondi federali, non quelli erogati dagli Stati o dalle autorità locali. Ma la Harris non retrocedette di un passo, accusando il proprio futuro principale di aver coltivato, in passato, un paio di “amicizie pericolose”: quella con James Eastland (1904-1986) e quella con Herman Talmadge (1913-2002). Eastland, senatore Democratico del Mississippi dal 1943 al 1978, definiva i neri «razza inferiore» e, durante la Seconda guerra mondiale (1939-1945), bollò quelli che chiamava «negri» come fisicamente, moralmente e mentalmente inadatti all’attività bellica.
Quanto a Talmadge, fu governatore dal 1948 al 1955, dunque senatore dal 1957 al 1981 della Georgia. Quando, nel 1964, il presidente democratico Lyndon B. Johnson (1908-1973) firmò il Civil Rights Act che pose fine alla segregazione dei neri, Talmadge, per protesta, boicottò la convention Democratica. La vicinanza ai due defunti senatori segregazionisti è peraltro stata rimproverata a Biden, in modo assai deciso, anche da un altro candidato alle ultime primarie Democratiche: il senatore afroamericano del New Jersey Cory Booker. Ovvio, Biden ha respinto le accuse, ma ha ammesso che Eastland lo chiamasse affettuosamente «figlio». Il quotidiano non certo conservatore The Washington Post ha peraltro rivelato che i membri dello staff di Biden gli avrebbero sempre raccomandato di non rievocare mai il nome di Eastland in pubblico.
Con Talmadge, Biden ebbe certamente legami più blandi, e oggi lo ricorda con toni decisamente freddi. Il senatore della Georgia era infatti un alcolista e Biden una volta ebbe occasione di definirlo «uno degli uomini più meschini del Senato», con cui non era «mai d’accordo su nulla». Ciononostante tra i due intercorreva un rapporto civile, tanto da portarli a realizzare «cose assieme». In particolare, riferisce il periodico The Atlantic (sempre non conservatore), Talmadge avrebbe contribuito a istituire i food stamp federali (i sussidi statali per le famiglie americane in forte difficoltà o totalmente prive di reddito), dando anche sostegno alle investigazioni del cosiddetto «scandalo Watergate».
Persino le tre K
C’è però un altro legame torbido tra il presidente Biden e un ennesimo senatore Democratico segregazionista. Alla vigilia delle presidenziali del 2008, Biden, allora candidato alla vicepresidenza con Obama, fu fotografato a fianco di Robert Byrd (1917-2010) durante un comizio a Charleston, in West Virginia. Alle esequie di Byrd, il 2 luglio 2010, Biden pronunciò un elogio funebre tessendo lodi sperticate del defunto, che definì «un custode dell’istituzione del Senato», se non addirittura quell’«istituzione stessa», dicendo che per Byrd «l’aula del Senato era la sua cattedrale e il West Virginia il suo paradiso».
Ora, Byrd fu senatore del West Virginia dal 1959 al 2010, diventando il secondo parlamentare statunitense per durata di mandato. In gioventù Byrd militò nel Ku Klux Klan (di cui però non fu mai Grand Wizard, come erroneamente alcuni dicono) e si oppose alla decisione del presidente Harry Truman (1884-1972) di ammettere i neri nell’esercito. «Preferirei morire mille volte, e vedere l’Old Glory», cioè la bandiera degli Stati Uniti, «calpestata nel fango senza più risorgere piuttosto che vedere la nostra amata terra degradata da gente di razza bastarda», scrisse nel 1945. Negli anni 1950, Byrd prese sì le distanze dal Ku Klux Klan, ma non dall’ideologia segregazionista e si oppose sia al Civil Rights Act del 1964 (cui fece ostruzionismo per ben 14 ore) sia al Voting Rights Act del 1965, che punisce la discriminazione razziale nei diritti di voto. Il suprematismo bianco Byrd lo abbandonò completamente solo nel 1968.
E pure la Harris
Ora, se è vero che tre indizi fanno una prova, i legami di Biden con Eastland, Talmadge e Byrd sono conclamati e, almeno in un caso, mai rinnegati. Fuori da queste ambiguità dovrebbe però essere Kamala Harris. Ma anche lei, nata 56 anni fa in California da padre giamaicano e da madre indiana, viene da rapporti sofferti con la comunità afroamericana. Pur avendo sponsorizzato il ticket presidenziale Biden-Harris in campagna elettorale, Angela Davis, la storica militante dei Black Panthers, militante del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America fino al 1991, vegana e lesbica non è entusiasta della nuova numero 2 della Casa Bianca.
«Non si può dimenticare che [la Harris] non si è opposta alla pena di morte e non si possono dimenticare alcuni problemi veri legati al suo mandato di procuratore generale» in California, cioè di ministro della Giustizia di quello Stato, dal 2011 al 2017, ha dichiarato Davis alla Reuters, auspicando peraltro che la Harris possa «accogliere anche le pressioni progressiste radicali che potremo esercitare su di lei in futuro». Del resto, al vertice della Giustizia californiana, e, prima ancora, in veste di magistrato a San Francisco, la nuova vicepresidente si è guadagnata fama di giustizialista, avendo difeso i metodi brutali della polizia ed essendosi rifiutata di riaprire casi investigativi su cittadini disarmati uccisi dagli agenti.
Non è tenera con lei nemmeno l’avvocato Nnennaya Amuchie, militante di Black Lives Matter, attivista per i “diritti LGBT+”, filoabortista, comunista e lesbica: «Per anni ha avuto l’opportunità di scusarsi e di riparare ai danni causati alle povere comunità nere», ha dichiarato la Amuchie alla fine del 2019, poco dopo il ritiro della Harris dalle primarie Democratiche. Secondo l’attivista, il ruolo di top cop della Harris ministro in California sarebbe infatti «inconciliabile con un’era post-Obama/Black Lives Matter in cui i giovani sono oramai profondamente istruiti e informati sul razzismo sistemico e sui modi con cui i politici neri ne sono stati complici».