Biden alla Casa Bianca

Lui, il suo “establishment” e l’estremismo movimentista di rincalzo della Harris

Joe Biden

Last updated on Dicembre 27th, 2020 at 09:37 am

Oggi è il 15 dicembre. Cioè il giorno dopo il primo lunedì successivo al secondo mercoledì del mese di dicembre (e non il «primo lunedì dopo il secondo mercoledì successivo alle elezioni», come scrive l’Adnkronos). Ieri, dunque, come sancisce la Costituzione federale, il Collegio Elettorale che è stato eletto il primo martedì successivo al primo lunedì di novembre dell’anno elettorale (sempre come sancisce la Costituzione), cioè il 3 novembre, e che è stato eletto dagli elettori degli Stati che compongono l’Unione nordamericana contati come “somma federale” dei “parziali” di ciascuno Stato (e non come insieme assoluto di cittadini statunitensi) si è riunito. Ogni slate di «Grandi elettori» eletto in ciascuno Stato (giacché i «Grandi elettori» sono stati eletti in numero diverso Stato per Stato, per ciascuno Stato essendo il loro numero quello dei deputati eletti dai cittadini di ogni Stato proporzionalmente al proprio numero più due, cioè la “quota fissa” dei due senatori federali che ogni Stato elegge pariteticamente al Congresso di Washington indipendentemente dalla propria ampiezza e dal numero dei propri cittadini) si è dato convegno nella capitale di detto Stato per eleggere, ancora come stabilisce la Costituzione, il presidente e il vicepresidente della repubblica federale. Senz’alcun mandato imperativo. La maggioranza dei «Grandi elettori» ha cioè eletto (come da indicazione, ma, appunto, senz’alcun mandato imperativo) Joe Biden alla presidenza federale e Kamala Harris alla vicepresidenza federale. Da oggi, dunque, Biden è il presidente degli Stati Uniti d’America. No.

6 gennaio 2021

Come viene correttamente detto, il collegium che negli Stati Uniti elegge il presidente e il vicepresidente federali (perché a farlo non è direttamente il popolo) non è un luogo, ma un processo. Questo processo collegiale è iniziato il 3 novembre con la scelta dei «Grandi elettori» da parte degli elettori di ciascuno Stato, si è espresso ieri con il voto, ma i voti che i «Grandi elettori» hanno consegnato ieri 14 dicembre nel segreto dell’urna predisposta nelle capitali degli Stati dove sono stati eletti il 3 novembre verranno contati il 6 gennaio alle 13,00 ora di Washington dal Congresso federale a camere riunite, ovvero Camera dei deputati e Senato. Solo il 6 gennaio si saprà ufficialmente il risultato del voto espresso ieri dai «Grandi elettori» eletti il 3 novembre e solo allora il voto farà testo. Biden diventerà così finalmente presidente degli Stati Uniti, passando da «president-elect» a «elected president» e l’«elected president» Biden si insedierà ufficialmente il 20 gennaio, detto Inauguration Day.

«President-elect»

Anche se di principio «president-elect» ed «elected president» sono due espressioni equipollenti della lingua inglese, la lingua (ogni lingua) si carica, nell’uso, di prassi storiche che finiscono per incidere sul significato dei termini (uno dei motivi per cui al dizionario si applica benone il proverbio latino che definisce la ricchezza bona ancilla, pessima domina). Se il candidato che esce vincitore dal conteggio dei suffragi espressi dai «Grandi elettori» il 6 gennaio viene definito «president-elect», e se «elected president» si dice solo a posteriori per indicare, genericamente, cioè al di là del calendario costituzionale che fissa le fasi dell’elezione (e il «processo» del Collegio Elettorale), chi sia stato eletto in una certa tornata elettorale, ovvero in un dato anno, dunque se fra le due espressioni c’è un uso fattuale differenziato, una ragione vi è.

L’uso dell’espressione «president-elect» viene introdotta dalla Sezione 3 del XX Emendamento (del 1933) alla Costituzione federale, vi compare tre volte in relazione al presidente federale e altrettante in relazione al vicepresidente federale. Nella Costituzione non compare altrove e nel XX Emendamento indica chiaramente la figura istituzionale che entrerà in carica il 20 gennaio (Inauguration Day), prestando giuramento. Quindi il termine ad quem è netto. Ma lo è anche il termine a quo, ovvero da quando si può utilizzare formalmente la dizione «president-elect»? Indicazioni precise non vi sono, ma forse solo apparentemente.

La Sezione 3 del XX Emendamento recita: «Se all’epoca fissata per l’inizio del mandato presidenziale», cioè il 20 gennaio, Inauguration Day, «il “president elect” fosse deceduto, il “vicepresident elect” diverrà presidente. Se non si fosse proceduto all’elezione di un presidente, prima della data fissata per l’inizio del mandato, o se il “president elect” non possedesse i requisiti necessari, il “vicepresident elect” fungerà da presidente sino a quando un presidente non sarà eleggibile o non possederà i requisiti necessari; e, nel caso in cui né un “president elect” né un “vicepresident elect” possedessero i requisiti necessari, il Congresso provvederà per legge a indicare la persona che assumerà l’incarico di presidente o il modo in cui verrà designata la persona che assumerà l’incarico di presidente. La persona così designata eserciterà le funzioni presidenziali sino a quando un presidente o un vicepresidente non possederà i requisiti necessari».

Ovvero è chiaro che «president elect» (e «vicepresident elect») è soltanto la persona oramai solo in attesa di insediarsi ufficialmente il 20 gennaio, essendo questi il candidato che si è aggiudicato la maggioranza dei voti espressi dai «Grandi elettori» il 14 dicembre e conteggiati il 6 gennaio. Nessun altro prima. Solo il 6 gennaio 2021, quindi, Biden diventerà presidente degli Stati Uniti in attesa di insediarsi ufficialmente il 20. L’unico intervallo di tempo, cioè, in cui Biden sarà presidente (elect) prima di insediarsi alla presidenza (having been elected, generally speaking, on November 3, 2020) è quello che trascorrerà fra il 6 e il 20 gennaio 2021. Questo perché, senza dubbio, il 6 gennaio 2021 il conteggio dei voti espressi ieri dai «grandi elettori» consegnerà la vittoria presidenziale a Biden.

Presidente legittimo

Tutto ciò è prassi costituzionale inveterata e non accade soltanto oggi, come qualcuno potrebbe erroneamente pensare, per effetto delle contestazioni e dei ricorsi sul voto del 3 novembre. Il che nega recisamente che Donald J. Trump non abbia voluto concedere la vittoria al rivale. Lo farà dopo il 6 gennaio.

Quindi il 6 gennaio Biden sarà il presidente legittimo degli Stati Uniti. Sarà anche il presidente che non avremmo voluto anche noi che statunitensi non siamo e che ci battiamo per la difesa della vita umana innocente, della famiglia naturale e delle vere libertà della persona, ma questa è un’altra faccenda. Nessuno dovrà, cioè, fare come hanno fatto per quattro anni i nemici ideologici di Trump cercando di delegittimarne l’elezione con motivi pretestuosi che violano la Costituzione degli Stati Uniti. Biden sarà presidente, e se ne assumerà pienamente la responsabilità. Noi lo osserveremo e, nel nostro piccolo, essendo egli a guida del Paese più importante, potente e influente del mondo, lo avverseremo ogni qualvolta opererà contro la difesa della vita umana innocente, della famiglia naturale e delle vere libertà della persona, ma non diremo mai che è un presidente illegittimo. Se lo facessimo, mineremmo alla radice quello stesso impianto costituzionale che invece permette anche l’elezione alla Casa Bianca di un uomo che la tutela della vita umana innocente, della famiglia naturale e delle vere libertà della persona ha posto, pone, porrebbe e porrà al centro della propria azione di governo.

Brogli

Se dovessero in futuro, cioè da oggi al 6 gennaio, poi al 20 gennaio, quindi dopo il 20 gennaio, emergere prove che dovessero inficiare la legittimità dell’elezione di Biden dovranno essere ovviamente prese in considerazione. Ma sarebbero, e semmai saranno, appunto elementi ulteriori rispetto agli elementi che fino a oggi, e di qui al 6 gennaio, al 20 gennaio e oltre, risultano fino a prova contraria.

Si è parlato, molto, di brogli. I brogli sono possibili e quindi sono stati possibili anche stavolta. Ma vanno accertati a norma di legge. È possibile esistano motivi forti (non solo di natura morale) per essere convinti di brogli reali anche oltre i dati di fatto accertati. Non sono da ignorare, ma in sede giudiziaria non rilevano. Se i giudici competenti e la Corte Suprema federale non hanno fino a oggi ritenuto esservi gli estremi per inficiare il corso dell’elezione significa che non hanno avuto prove valide in sede giudiziaria. Il che non significa che elementi per parlare di brogli non esistano tout court, ma il risultato, in sede giudiziaria, non muta. La magistratura ha cioè fatto il proprio mestiere (compresa una Corte Suprema federale in maggioranza conservatrice, eletta anche per volontà di Trump proprio per amministrare la giustizia in modo cristallino) e continuerà a farlo qualora dovessero emergere elementi nuovi. Oggi però la verità giudiziaria sulla elezione di Biden è questa. Forse lo sarà sempre. Forse no. Adesso però bisogna agire con realismo. Sarebbe ideale che la verità giudiziaria coincidesse con la verità storica e con la verità morale, ma non vi è alcun automatismo, e il modo di accertare queste tre fattispecie dell’unica verità esistente sono diversi.

Il 5 gennaio

Affinché il 6 gennaio le Camere riunite del Congresso federale possano procedere alla conta dei voti espressi ieri dai «Grandi elettori» e designare finalmente il «president elect» (e il «vicepresident elect») occorre che sia Camera sia Senato siano insediati e prima che siano stati eletti. La data di insediamento del nuovo Congresso, il 116°, suddiviso fra Camera e Senato, è il 3 gennaio.

Il 116° Congresso che si insedierà il 3 gennaio è stato eletto il 3 novembre: la Camera federale per intero e il Senato per circa un terzo, come sempre avviene ogni due anni. Questa volta, però, fino al 5 gennaio non si conoscerà la composizione del Senato federale e quindi la maggioranza che lo guiderà. Infatti il 5 gennaio si svolgerà il ballottaggio per l’assegnazione dei due seggi senatoriali che spettano allo Stato della Georgia. Questo perché il 3 novembre nessun candidato al Senato federale della Georgia ha raggiunto il 50% più 1 dei voti espressi (per la presenza di “terzi candidati”) e così ha reso necessario un “secondo turno” fra i due migliori piazzamenti per ciascuno dei due seggi in palio.

Solo il 5 gennaio, dunque, si saprà se Biden conterà sulla totalità del Congresso federale (la Camera eletta il 3 novembre è infatti già vinta dai Democratici anche se i Repubblicani hanno ridotto le distanze in termini di numeri) oppure se dovrà fare i conti con un Senato a maggioranza Repubblicana.

Il vicepresidente Kamala Harris

Il “secondo turno” della Georgia resta quindi decisivo. I Repubblicani potrebbero infatti conservare, seppur di stretta e di strettissima misura la maggioranza, ma la maggioranza è però indispensabile: un pareggio nelle sessioni di voto al Senato, che potrebbe derivare da un pareggio nel conto dei seggi alla fine eletti, chiamerebbe infatti sempre in causa il parere dirimente del presidente del Senato, che, da Costituzione, è il vicepresidente della repubblica federale, ovvero la Harris.

La maggioranza Repubblicana al Senato comporterebbe invece un ostacolo serio all’attività legislativa dei Democratici, un ostacolo serio alle nomine di giudici federali che Biden opererà e prima ancora un ostacolo serio alla composizione del governo Biden, visto che non tutte, ma alcune, nomine strategiche del gabinetto del presidente federale passano al vaglio del Senato.

Anima biforcuta

Si parla molto, ora, delle “due anime” che compongono la «squadra di transizione» dall’Amministrazione Trump all’Amministrazione Biden e quindi ipotecando la composizione del governo futuro. Spessissimo la stampa internazionale definisce queste “due anime” con i termini «moderato», o «centrista», da un lato ed «estremista» dall’altro. L’ala «moderata» sarebbe quella che fa capo a Biden, mentre quella «estremista» l’ala che fa capo alla Harris. Descrivere così l’assetto attuale è però del tutto fuorviante.

Biden, infatti, non è per nulla «moderato» o «centrista».

Cosa vi è, infatti, di «moderato» o di «centrista» nel presidente del Paese più importante e influente del mondo che, cattolico praticante, dichiari, come ha fatto Biden alla rete televisiva ABC il 15 ottobre, «The idea that an 8-year-old child or a 10-year-old child decides, “You know I decided I want to be transgender. That’s what I think I’d like to be. It would make my life a lot easier.” There should be zero discrimination»? Nulla. Lascio la citazione in lingua per beffare i fact-checker che poi direbbero che ho fatto dire a Biden ciò che Biden non ha detto.

Cosa vi è di «moderato» o di «centrista» nel presidente del Paese più importante e influente del mondo che, da cattolico praticante, voti regolarmente per promuovere l’aborto come se l’aborto fosse un diritto umano?

Nulla. Non vi sarebbe nulla di «moderato» o di «centrista» nel presidente del Paese più importante e influente del mondo che, ateo, dichiarasse così e votasse così, ma dichiarare così e votare così professandosi cattolico spedisce «moderatismo» e «centrismo» ad anni-luce di distanza da qui.

Piuttosto Biden incarna l’establishment del Partito Democratico. Ora, l’establishment del Partito Democratico, dopo otto anni di Barack Obama, dopo le incursioni di Hillary Clinton e dopo le sfide di Bernie Sanders (e dei Pete Buttigieg e delle Alexandria Ocasio-Cortez, qualunque cosa sarà di loro) è tutto tranne che «moderato» o di «centrista». Ovvero, le sue correnti «moderate» e «centriste» non esistono più. Biden rappresenta insomma la “macchina” di un partito politico in cui «moderatismo» e «centrismo» sono stati espunti. Se i media non pendessero in gran parte da quella parte politica lo riconoscerebbero con onestà.

Se dunque l’estremismo è l’establishment del partito, l’ala della Harris cosa rappresenta? Rappresenta l’ala “movimentista” di quello stesso estremismo. Più che “due anime”, una sola anima biforcuta.

I vicepresidenti

Ora, i vicepresidenti degli Stati Uniti servono, almeno da qualche decennio a questa parte, per cercare di assicurare a un certo candidato alla presidenza il raccordo strategico con un elettorato possibile, che va inseguito, coccolato, rassicurato. Quell’elettorato possibile può essere il “mondo liberal” se il candidato presidente è (più) conservatore, un “mondo conservatore” se il candidato alla Casa Bianca è (più) liberal, una Sinistra di strada e piazza se il candidato è di establishment, e così via.

La storia lo mostra. Il conservatore Ronald Reagan (1911-2004) scelse il meno conservatore George H. W. Bush (1924-2018) in un momento in cui il grosso del Partito Repubblicano, necessario per vincere, era assai meno mediamente schierato su posizioni conservatrici di quanto lo sia oggi. Poi Bush padre scelse al proprio fianco Dan Quayle, un po’ in odore di «social conservatism». Bill Clinton scelse quell’Al Gore che piaceva alle Sinistre movimentiste. Il George W. Bush figlio amico dei conservatori volle il Dick Cheney dell’establishment. L’idolo delle piazze Obama scelse l’uomo dell’establishment Biden. Il Trump che all’epoca non dava certezza completa al movimento conservatore scelse il campione del conservatorismo Mike Pence. E oggi il Biden dell’establishment estremista impalma la Harris dell’estremismo movimentista. Non fanno eccezione nemmeno un paio di “trombati” eccellenti: il meno conservatore John McCain (1936-2018) scelse la beniamina dei conservatori Sarah Palin e l’estremista Hillary Clinton predilesse il non meno estremista Tim Kaine, il quale però, cattolico, pur assomigliando in questo al Biden di oggi, assolveva quattro anni fa alla funzione di portare in dote l’elettorato cattolico che, perennemente turlupinato dai politici Democratici, resta essenziale, non fosse altro per il fatto che i cattolici sono la maggioranza relativa dei cittadini statunitensi.

Il mignolo e la chicchera

Le “due anime” che oggi si stanno misurando per il governo futuro degli Stati Uniti sono dunque l’estremismo da establishment di Biden e l’estremismo movimentista della Harris. Il primo conta ora più nomine vere, presunte e potenziali dentro la «squadra di transizione» e quindi, in ipotesi, nel governo. Vero. Questo perché le anime movimentiste, una volta assolto il compito di portare al voto un elettorato potenziale altrimenti inespresso o persino disperso, diventano ingombranti, se non imparano a scendere a patti con l’establishment. Fatto bottino dei voti scongelati dall’“ala Harris”, insomma, Biden potrebbe anche cercare di sfilarsi da un abbraccio che potrebbe risultare soffocante, relegando la propria vice a fare da carta da parati, come spesso i vicepresidenti degli Stati Uniti fanno e lo stesso Biden fece con Obama. L’establishment, infatti, anche quando estremista sa sempre vestire il doppiopetto, sa sempre maneggiare il turpiloquio in pubblico e per questo riesce a irretire stampa e quant’altri che lo definiscono «moderatismo» o «centrismo». Se e finché i movimentisti non imparano a farlo, verranno sempre adoperati solo come utili idioti. La radicalità dell’Amministrazione Biden cioè non cambia se l’“ala Harris” continuerà a essere tenuta un po’ al confino: cambierà soltanto il suo look, facendosi più digeribile nel mondo.

Realtà come Blacks Lives Matter e gli Antifa sono molto utili. Ma poi bisogna saper alzare il mignolo sorbendo dalla chicchera delle tavole dei George Soros, del World Economic Forum o del Center for Inclusive Capitalism, per dirne alcune.

Chez Paul

C’è però forse anche un secondo motivo per cui adesso i nomi di governo in quota Harris sono inferiori di numero rispetto a quelli in quota Biden. E quel motivo si chiama 5 gennaio.

Se il 5 gennaio il “secondo turno” della Georgia consegnerà ancora la maggioranza del Senato federale ai Repubblicani, il Senato avrà il potere politico di bocciare alcune nomine importanti del gabinetto Biden a termine del processo di vaglio delle loro candidature che a quell’assise spetta per dovere istituzionale. Un personale politico che l’establishment Democratico riuscisse a vendere come più «moderato» o «centrista», o qualcuno che desse garanzia di mignolo ben alzato alla tavola dei poteri forti, rispetto a nomi invece più targati street-fighting, o anche solo street-wear, potrebbe avere qualche chance in più di spuntarla pure davanti a un Senato in tesi ostile, soprattutto alla lunga e anzitutto se avesse ingaggiato qualche make-up artist di talento.

Se invece i Repubblicani perdessero il Senato, Biden potrebbe anche concedere al “mondo Harris” qualche figurina in più in stile The Blues Brothers a cena da Chez Paul. Magari anche con qualche avvicendamento nei mesi successivi all’Inauguration Day. I 74 milioni di statunitensi che hanno votato Trump e il personale politico che li rappresentano non debbono lasciarsi prendere dal panico. Ma ci sarà tempo per parlare di questo.

Image source: Joe Biden, photo by Marc Nozell from Flickr, licensed by CC BY 2.0

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