Last updated on aprile 28th, 2021 at 02:33 am
Il disegno di legge sull’assegno unico e universale per i figli al di sotto dei 21 anni di età ha ricevuto l’assenso del Senato il 30 marzo, con un voto quasi unanime: 227 i voti a favore, nessuno contrario e solo 4 gli astenuti. Il provvedimento del ministro per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, aveva già ricevuto il via libera della Camera, con un voto espresso all’unanimità. Si attendono ora i decreti attuativi per l’entrata in vigore a partire dal 1° luglio. Le dichiarazioni del ministro a palazzo Madama sono state entusiastiche: «Oggi è un giorno buono per l’Italia, il primo passo di una riforma storica. Si tratta di un provvedimento importante perché inizia un tempo nuovo, del futuro, della ripartenza».
La Bonetti parla infatti di «riforma storica, integrata, delle politiche familiari del nostro paese». «L’istituzione dell’assegno unico universale all’interno di queste politiche, del Family Act, segna evidentemente un cambio di paradigma nelle politiche per le famiglie e nel sostegno alla natalità […] per rimettere al centro le nuove generazioni». Si riconosce che «il calo demografico ha raggiunto livelli drammatici per l’Italia», individuandone le «ragioni profonde», «nell’impossibilità che oggi le donne e gli uomini hanno di guardare al domani». Il ministro dice che il parlamento è pienamente consapevole del fatto che «stiamo usando le risorse del futuro dei nostri figli».
Alcune considerazioni, al di là degli aspetti tecnici del provvedimento. È certamente cosa buona e giusta che il governo si sia finalmente reso conto della gravità della situazione demografica italiana, e che dunque voglia definire misure per un rilancio della natalità e per rendere meno ardua la vita alle famiglie. Il Belpaese è in ritardo di una trentina d’anni, ma meglio tardi che mai. La terapia, tuttavia, può avere qualche speranza di essere efficace solo se viene preceduta da una diagnosi corretta. La grave crisi sociale ed economica provocata dal rigido lockdown imposto dal governo a fronte dell’epidemia CoViD-19 ha del resto senza dubbio impresso un effetto nefasto anche sulla natalità. I dati resi noti dall’ISTAT sono infatti impietosi: il numero di nati in Italia per anno segna nuovi minimi storici e nel 2021 potrebbe scendere addirittura al di sotto delle 400mila unità, a fronte del milione di nati annui registrati nell’immediato dopoguerra.
Ma l’emergenza sanitaria ed economica non sono le «ragioni profonde», come vorrebbe il ministro Bonetti, del declino demografico in Italia: magari fosse così semplice.
L’involuzione demografica nel nostro Paese, in realtà, non inizia con il coronavirus, bensì parte alla fine degli anni 1970, in corrispondenza della grave crisi morale provocata dalla “rivoluzione culturale” post-1968, con la riforma del diritto di famiglia, e l’introduzione del divorzio e dell’aborto. Nel 1976 il «tasso di fecondità totale» che esprime il numero medio di figli per donna in età fertile, è ancora a ridosso della cosiddetta «soglia di sostituzione», pari a circa 2,1 figli per donna, il livello necessario per garantire il ricambio generazionale in presenza di un saldo migratorio nullo. Negli anni seguenti si assiste a un vero e proprio collasso: la fecondità crolla a 1,64 figli in media per donna nel 1980 (la legalizzazione dell’aborto è del 1978, evidente la correlazione) e poi a 1,33 nel 1990. In solo 15 anni, quindi, il numero di bimbi nati in Italia per anno è diminuito di oltre 700 ogni 1000 donne: una catastrofe.
Dopo un minimo storico a 1,19 figli per donna nel 1995, si avvia una timida ripresa della natalità fino a registrare un ”picco” (si fa per dire) a 1,46 nel 2010, in corrispondenza della grande crisi finanziaria del 2008-2009. Negli anni seguenti riprende la tendenza ribassista fino a toccare un minimo a 1,27 nel 2019: pre-CoViD-19 la natalità si era quindi riportata verso i minimi storici della metà degli anni ‘90. Ovviamente si attendono nuovi drammatici cali della natalità come conseguenza della gestione sciagurata della pandemia da parte delle pubbliche autorità: ci troviamo certamente di fronte a un’accelerazione ribassista, inserita però all’interno di una tendenza negativa in essere da 45 anni.
All’origine del suicidio demografico in atto nel nostro Paese non ci sono quindi motivazioni economiche, che tutt’al più possono essere concause, le quali vanno ad accentuare ulteriormente un male già radicato profondamente. Non esiste, insomma, crisi demografica perché c’è crisi economica, ma c’è crisi economica perché esiste crisi demografica. I costi pensionistici e sanitari crescenti, a causa dell’allungamento delle aspettative di vita e dell’invecchiamento della generazione dei cosiddetti baby-boomer, i nati dal 1946 al 1964, si scaricano su una popolazione in età lavorativa in continua contrazione, per il progressivo collasso demografico degli ultimi 4 decenni.
Aumentano le pensioni da erogare e i costi sanitari e assistenziali, mentre diminuiscono le buste-paga a cui attingere per farvi fronte. È evidente la fragilità di una «piramide demografica» che si sta trasformando in un “fungo”, dal gambo sempre più piccolo e il cappello sempre più grande. È la mancata “riproduzione del capitale umano” che inchioda la produttività impedendo la crescita economica e la generazione di benessere diffuso: l‘assenza di persone non può essere compensata dalla liquidità creata ex nihilo dalle Banche Centrali o dal continuo ricorso all’indebitamento, pubblico e privato.
Tali misure servono solo a ipotecare il futuro e a rinviare il momento del redde rationem. A ciò si aggiunge lo sviluppo «sostenibile», propagandato e imposto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nell’Agenda 2030, che vede tra i propri pilastri la diffusione dei cosiddetti «diritti sessuali e riproduttivi» – cioè aborto, contraccezione e sterilizzazione – e che rischia paradossalmente di rivelarsi “insostenibile” proprio sul piano economico. Per tacere degli effetti nefasti dell’ideologia gender, anch’essa propugnata dall’ONU e da altre influenti agenzie internazionali: in una società “liquida” e gender-fluid, senza più famiglia, spariscono anche i figli, e senza figli si blocca la crescita economica. Punto. Che gli errori antropologici abbiano conseguenze nefaste anche sul piano economico non deve stupire: è una conferma dell’ordine del creato che non può essere impunemente violato, e ne abbiamo avuto evidenza con l’implosione dell’Unione Sovietica.
Alla radice del prolungato inverno demografico dell’Italia (ma anche degli altri Paesi sviluppati) vi sono quindi profonde cause culturali e morali, che si sono “istituzionalizzate” in leggi cattive favorendo a loro volta il consolidamento di cattivi costumi: un processo rivoluzionario che ha aggravato sempre più la crisi della famiglia e sfavorito la natalità, indebolendo la crescita economica fino ad arrestarla completamente, come abbiamo osservato negli ultimi 20 anni.
Pensare di invertire tendenza dando la paghetta di Stato ai figli – e magari il reddito di cittadinanza ai genitori – non può davvero essere la soluzione. Intervenire sugli effetti, senza agire sulle cause, può tutt’al più dare un sollievo momentaneo, ma non può essere risolutivo. Per tacere dell’ulteriore accumulo di debiti per finanziare tali politiche, e i debiti sono sempre tasse differite.
Il punto di partenza corretto, in linea con la diagnosi succitata, è invece quello di riattribuire una posizione di centralità alla famiglia, a tutti i livelli, nella prospettiva di uno «sviluppo umano integrale».
Sul piano fiscale occorre legare l’imposizione al numero dei componenti del nucleo familiare, oltre a garantire nei fatti la libertà di scelta educativa riconoscendo alle famiglie il cosiddetto «buono scuola»: solo così, infatti, le famiglie saranno nelle condizioni di potere scegliere liberamente la scuola e il percorso educativo che desiderano per i propri figli.
Se lo Stato desidera davvero contribuire al bene comune, adempiendo finalmente alla propria unica ragione d’essere, al posto di pretendere di pianificare e di dirigere tutto deve fare un passo indietro, rimettendo al centro la famiglia, in una prospettiva di sussidiarietà vera. Se non lo vuole fare per ragioni di principio e morali, lo faccia almeno per ragioni di convenienza, onde evitare il collasso del sistema previdenziale, e sanitario, nei prossimi decenni.
La soluzione reale non passa dalle politiche assistenzialistiche, che generano solo dipendenza: i pannicelli caldi dell’assegno universale non cambieranno le tendenze demografiche nel nostro Paese. Perché le buone intenzioni non bastano.