Le donne che lasciano il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia non sono così rare, anche se di loro si parla piuttosto poco. Piuttosto rare sono invece le donne che, prima ancora del matrimonio, lasciano gli studi universitari.
È capitato a Lisa Zuccarini, 38enne chietina, che abbandonò la facoltà di Medicina al sesto anno, a pochi esami dalla laurea. Il motivo? Aveva compreso che, per quello che la riguardava, lo stile di vita del medico mal si conciliava con la famiglia. Oggi Lisa è sposata con Roberto da sette anni e ha due figli, di quattro e due anni. Doc a chi?! Cronache e disastri di una mamma col camice appeso al chiodo è la sua non convenzionale autobiografia, un libro godibilissimo e parecchio autoironico, ricco di tenerezza e di profondità.
Com’è nato il libro?
Inizialmente l’avevo pensato come il racconto della vita di una mamma a tempo pieno di due bimbi, secondo una visione simpatica, ironica e piena di speranza e di fiducia nella Provvidenza. L’input iniziale mi è arrivato da amiche che hanno anch’esse figli piccoli e che, specie durante i periodi di lockdown, si sono ritrovate con tutte le difficoltà legate all’isolamento. Poi, però, l’editore Giuseppe Signorin ha suggerito di porre l’accento sul mio passato di studentessa in Medicina e sui miei trascorsi tra reparti e corsie: per una questione di privacy e di segreto professionale, non mi sono dilungata più di tanto su questo aspetto. In ogni caso, nel libro ho voluto raccontare la mia attuale vita di mamma anche a confronto con il mio passato universitario.
Lei era una studentessa particolarmente brillante ed entusiasta: cosa l’ha indotta a cambiare vita?
Ho lasciato gli studi al sesto anno, quando ormai mi mancavano solo pochi esami. Mia madre è medico e il suo esempio mi aveva sempre galvanizzato. Tuttora ritengo che quella di medico sia una grande professione e anche una bella vocazione. Di questo lavoro mi piaceva anche il risvolto dei rapporti umani, per cui ho sempre avuto una spiccata predisposizione: nel momento in cui si entra a contatto con il malato, la soddisfazione aumenta, ci si sente utili perché si sente che si sta realizzando qualcosa di buono per il prossimo. La realtà, però, a lungo andare, è risultata diversa dalle aspettative: la professione medica richiede una certa impostazione di vita e un tempo importante da dedicarvi, cosicché le richieste che mi venivano fatte iniziavano a pesarmi seriamente. L’entusiasmo iniziale non bastava più, crescendo ho iniziato a maturare fortemente il desiderio di avere una famiglia, cosa che, durante i primi anni universitari, non vedevo come concretamente realizzabile, anche perché, da giovane, ero molto indipendente, ero per il “mi basto per me stessa”. Quando, a 21 anni, ho conosciuto quello che oggi è mio marito, però, ho cambiato prospettiva e ho iniziato a farmi delle domande. Dovevo capire come conciliare la sfera lavorativa e quella familiare. Anche continuando a dare esami con profitto, avevo già preso in cuor mio una decisione: fare il medico non era il mio ideale di vita. Io volevo qualcosa di più rispetto a una semplice soddisfazione professionale, che sicuramente ci sarebbe stata ma che mi avrebbe fatto diventare una di quelle persone che vanno avanti per quieto vivere, senza aver mai risposto davvero alle proprie domande interiori.
Nessun rimpianto, dunque?
Assolutamente nessun rimpianto. Anche se, i primi tempi, molti mi chiedevano se fossi convinta di quel che avevo fatto: l’opinione degli altri era uno specchio in cui mi dovevo confrontare. Sono felice della mia scelta e così sarà, fino a quando dovesse esserci una “botta di genio” che però non credo mai avverrà.
Che consiglio darebbe a una ragazza che si dovesse trovare davanti a una scelta simile alla sua?
Devo dire che molte donne, specie sui social, mi chiedono consigli. La cosa sinceramente mi dà un po’ di sgomento, perché sento quanto sia grande la responsabilità nel dare suggerimenti a persone di cui, fondamentalmente, non conosco bene la vita. Quello che posso dire è che, innanzitutto, bisogna pregare: ho riscontrato quanto la preghiera sia centrale nella mia vita e quanto non mi lasci sola nelle mie scelte. Dopodiché è utile avere al proprio fianco una persona che ci conosca intimamente e che sia sufficientemente saggia da poterci indicare se la strada che stiamo prendendo sia quella giusta. In questa figura, io ci vedo un sacerdote ma può anche essere qualunque persona adulta e in equilibrio con se stessa e con gli altri. Quando si deve prendere una decisione così radicale, poi, è importante essere sereni con se stessi: un conto è affrontare una difficoltà anche grossa lungo il proprio cammino, sentendo comunque che la propria strada è quella già intrapresa; altro è quando si affronta una vera crisi vocazionale (anche il lavoro può essere una vocazione), che richiede di rivalutare realmente i propri obiettivi e le proprie intenzioni. Non è impossibile conciliare il ruolo di medico e quello di moglie e mamma: se ciò avviene, questo è bellissimo, anzi, ammiro chi ci riesce. Anche la “professione” di moglie e mamma, comunque, già di suo, è un percorso impegnativo ma comunque pieno di soddisfazioni su tutti i fronti.
Un capitolo del libro, verso la fine, è dedicato alla virtù dell’umiltà, per la quale la vita familiare è un’ottima “palestra”. Qual è stata la sua esperienza a riguardo?
Per quello che mi concerne, il mio orgoglio è in fase di destrutturazione: è una sfida nella quale non mi sento affatto arrivata e che devo costruire quotidianamente. Per me l’umiltà è una meta difficile, perché l’orgoglio fa parte del mio DNA. Sicuramente, quando ero studentessa, mi inorgoglivo ancora di più: rinunciare agli onori e alle cariche dell’ambiente medico è qualcosa che riduce tantissimo l’orgoglio. L’umiltà è qualcosa che ho sperimentato nella mia vita universitaria, in un esame molto particolare che dovetti affrontare con un professore piuttosto noto e importante. Nel libro ho parlato di questo episodio e anche dell’importanza dell’umiltà nei rapporti con i miei genitori, con la maternità. Alla mia spiccata propensione per il prossimo, si affiancava una forte tentazione a una superbia, che, alla fine, appanna anche la capacità di farsi realmente prossimi a chi ne ha bisogno, perché ci si mette su un piano che è quello di chi giudica e può decidere le sorti degli altri, magari in modo non del tutto utile e adeguato. Adesso, invece, pulisco cacche, pipì, mi becco i rimproveri di un quattrenne se non faccio la pappa come piace a lui, quindi, è un bell’esercizio di umiltà. Non credo di avere meriti particolari nel mio ruolo di moglie e mamma: c’è chi lo fa con persone malate in famiglia o in altre situazioni difficili; quindi, anche fare soltanto la moglie o la mamma non è affatto un percorso lineare o banale: al contrario meriterebbe un riconoscimento ben maggiore di quello che viene normalmente attribuito.