Last updated on Maggio 15th, 2020 at 11:18 am
«Non ci arrenderemo mai». Ha salutato il mondo con queste parole Birthe Lejeune, morta il 6 maggio all’età di 92 anni. Le stesse ultime parole del marito, Jérôme Lejeune (1926-1994), genetista e pediatra francese, scopritore dell’origine della Trisomia 21, la Sindrome di Down.
Birthe Lejeune, vicepresidente della Fondation Jérôme Lejeune di Parigi, membro della Pontificia Accademia per la Vita, membro del Pontificio Consiglio per la Salute, cavaliere della Legione d’Onore, ha raccolto nel 1994 l’eredità del marito, trasformandola in una istituzione che oggi è in grado di finanziare oltre cinquanta progetti di ricerca scientifica sulle disabilità intellettive di origine genetica all’anno.
Ricerca, cura e difesa: si potrebbe sintetizzare così l’azione della Fondazione, riconosciuta come primo finanziatore in Francia di progetti di ricerca sulle disabilità intellettive, primo centro di consultazione sulle disabilità intellettive in Europa e primo sostenitore della vita umana nel Parlamento Europeo e nell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La difesa della dignità di ogni vita umana infatti, soprattutto se ferita o fragile, è stato il vero motore che ha mosso Jérôme e Birthe per tutta la vita.
Contra mundum
È il 26 gennaio 1959 quando il brillante genetista francese pubblica, assieme ai colleghi Raymond Turpin (1895-1988) e Marthe Gautier, la scoperta del cromosoma aggiuntivo sulla coppia 21, da qui la denominazione Trisomia 21. La genetica moderna muove allora i primi passi. Ma da subito accade qualcosa che Jérôme non si sarebbe mai aspettato: le sue scoperte, nate dal desiderio di sostenere e di curare le persone affette da disabilità intellettiva, vengono utilizzate come strumento per riconoscere la presenza di alterazioni genetiche durante la gravidanza e quindi spingere la madre ad abortire. L’illustre professore, acclamato dalle università e dalla stampa, però non ci sta. E prende pubblicamente posizione contro l’aborto, riconoscendo con sguardo profetico il pericolo di una deriva eugenetica. La scelta ha un costo: vengono a mancare gli inviti ai congressi scientifici e le richieste d’intervista, attorno a lui si crea il vuoto e i colleghi lentamente lo abbandonano. Per tutta risposta Jérôme rinuncia a incarichi comodi e inizia a girare il mondo, tenendo conferenze e animando seminari per sensibilizzare le persone sul tema della disabilità intellettiva e sul valore intrinseco di ogni vita umana.
«La qualità di una civiltà si misura dal rispetto che ha per il più debole dei suoi membri», era solito ripetere Jérôme, una frase che, nel luglio 2019, è tornata sugli striscioni per le strade di Parigi, quando i francesi sono scesi in piazza per difendere la vita di Vincent Lambert (1976-2019) contro la decisione di sospenderne l’idratazione e la nutrizione. La battaglia per salvare Lambert non ha purtroppo dato i frutti sperati, ma la presenza della Fondazione Jérôme Lejeune è stata fondamentale per riaccendere il dibattito in un’opinione pubblica francese assuefatta alla cultura dello scarto.
Persino le calunnie
Nel 1994 san Giovanni Paolo II (1920-2005) chiama Jérôme a dirigere la neonata Accademia Pontificia per la Vita, lui però è malato di cancro e riuscirà a guidarla solo per 33 giorni. È la moglie Birthe a decidere, allora, senz’alcuna esitazione, che l’eredità del marito deve essere assolutamente portata avanti. Nasce così la Fondazione dedicata a Jérôme, una realtà per la quale Birthe ha speso ogni energia fino agli ultimi giorni di vita. Ancora scriveva a mano le lettere di ringraziamento ai donatori che consentivano alla Fondazione di continuare nella ricerca, nella cura e nella difesa delle persone con disabilità intellettiva.
Birthe ha affrontato le tempeste che hanno investito il marito anche dopo la sua morte: nel 2013 un gruppo di scienziati pubblicò un documento che definiva Jérôme Lejeune «un usurpatore», perché in realtà non avrebbe avuto «un ruolo preponderante nella scoperta della Trisomia 21». Un’accusa infamante, immediatamente smentita da Birthe, ma non certo l’unica che ha colpito il genetista: mai gli è stato perdonato, infatti, l’avere posto l’accento sulla cura, sulla difesa della vita umana.
Anche quando la vita non si può guarire, la si può sempre curare, ma ammettere che la medicina ha dei limiti non è salutare per la carriera di un medico.
Adesso all’eredità di Jérôme si unisce quella di Birthe, che solo l’anno scorso in un’intervista al quotidiano Avvenire dichiarava: «Non abbiamo abbandonato quei bambini e non abbiamo smesso di consigliare le famiglie, proprio come faceva lui». E proprio l’epistolario fra gli sposi è tra i documenti allo studio nella causa di beatificazione del genetista, uno dei protagonisti dell’umanesimo cristiano del secolo XX, oggi Servo di Dio. La Fondazione ne continua imperterrita l’attività, riecheggiando le parole del grande scienziato: «La compassione per i genitori è un sentimento che ogni medico dovrebbe avere. L’uomo che riesce ad annunciare a dei genitori che il loro bambino è gravemente malato senza sentire il cuore schiantarsi al pensiero del dolore che li assalirà, non è degno del suo mestiere. Non è commettendo un crimine che si protegge qualcuno da una disgrazia. E uccidere un bambino è semplicemente omicidio. Non si dà sollievo al dolore di un essere umano uccidendone un altro. Quando la medicina perde tale consapevolezza, non è più medicina».
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