Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:06 am
La Cina è il buco nero del mondo contemporaneo, dove nessuno osa volgere lo sguardo per paura che i suoi abissi turbino i commerci di cui tantissimi stanno profittando. Vi avvengono ignominie quotidiane, ma nessuno scende in piazza per dimostrare. Il razzismo e la persecuzione delle minoranze etniche è all’ordine del giorno, ma quelle sono vite che non valgono, visto che nessuno leva un dito. La fede religiosa è un reato, ma nessuno lo scrive sugli striscioni che sventolano nelle piazze. La pandemia del coronavirus è stata dovuta per buona parte alle menzogne e ai ritardi intenzionali del regime neo-post-comunista, ma il coraggio di portare sino alle conseguenze ultime questa verità non lo dimostra nessuno. Una cosa da insegnarci, però, questo incubo totalitario ce l’ha.
Assurdità vecchie e nuove
Una premessa alla “lezione cinese”. La Cina è oggi retta da Xi Jinping, Segretario generale del Partito Comunista Cinese dal 15 novembre 2012 e presidente della Repubblica Popolare Cinese dal 14 marzo 2013. La sua strategia mondiale prende il nome di “Pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” e dal 24 ottobre 2017 fa parte della Costituzione del PCC accanto al pensiero del macellaio Mao Zedong (1893-1976) e a quello di chi nel 1979 gridò «Arricchirsi è glorioso»: Deng Xiaoping (1904-1997), autore di una riforma del Paese non meno macellaia (è sull’ala dei “riformisti” di Deng che pesa il massacro di Piazza Tiananmen del 1989) e inventore della dizione «con caratteristiche cinesi», applicata al socialismo, per significare che i comunisti cinesi sono i primi della classe e arriveranno all’intronizzazione dell’unico autentico comunismo realizzato della storia.
Ora, la follia visionaria di Xi Jinping, che mira a riscrivere la globalizzazione in caratteri mandarini, comprende un obiettivo assurdo: sconfiggere completamente la povertà entro il 2021. È assurdo quanto lo fu spingere una Cina totalmente rurale a superare la produzione industriale del Regno Unito in un quindicennio attraverso la campagna detta del «Grande balzo in avanti», che Mao lanciò nel 1958 causando una carestia impressionante e 36 milioni di morti, come documenta il giornalista dissidente cinese Yang Jisheng in Tombstone: The Untold Story of Mao’s Great Famine. Incurante dell’assurdità, e dei ricorsi storici, Xi si è impuntato per un preciso motivo ideologico: finché vi saranno sacche di povertà, sarà necessario consentire dosi di libertà economica e il comunismo non sarà pienamente se stesso. La sconfitta della povertà è dunque la forca caudina sotto cui il regime deve passare per fare trionfare il marxismo-leninismo, che finalmente potrà allora appuntarsi le stellette «con caratteristiche cinesi», poiché solo la Cina sarà a quel punto riuscita a realizzare tre punti decisivi del programma: instaurare la prima e unica società totalmente comunista della storia; debellare la libertà economica, mostrandone l’innaturalità attraverso la constatazione della sua inutilità; e l’una cosa perché l’altra. La sollecitudine sociale del regime cinese è motivata insomma soltanto dall’ideologia.
Quattro corollari (con bibliografia)
Il primo corollario di questa lucida follia è che se la libertà economica, per quanto “innaturale” e “inutile”, serve al socialismo per instaurare il comunismo, allora significa anzitutto che il collettivismo economico socialcomunista non funziona per niente (tanto che per ottenere se stesso deve chiedere aiuto al proprio nemico principale), ma soprattutto che nel giro mentale marxista-leninista circola un cortocircuito logico da paura.
Il secondo è che, siccome tutto si fonda su una pretesa puramente utopistica, cioè irrealizzabile, ovvero sconfiggere la povertà per sempre, il comunismo non verrà mai realizzato sul serio, dunque non esiste.
Il terzo è chiedersi, una volta calcolata la tara del tasso di povertà strutturale a qualsiasi società umana della storia da sempre e per sempre («i poveri infatti li avete sempre con voi», Mc 14, 7), perché la Cina conosca da decenni sacche di povertà importanti e talora paurose, nonostante da decenni “arricchirsi sia glorioso”, magari ristudiando i decenni neri su Mao. La storia sconosciuta di Jung Chang con Jon Halliday, Mao’s Last Revolution di Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals, Mao’s Great Famine. The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-1962 e Scarlet Memorial: Tales of Cannibalism in Modern China di Zheng Yi.
Il quarto è constatare che quando uno si incaponisce con un obiettivo utopico, il minimo che possa fare è violentare stizzosamente la realtà allorché questa non si piega al suo volere (e la bibliografia è sempre quella appena fornita).
Lo Stato servile
Ebbene, quest’ultimo corollario è quello che fa apprezzare per intero la “lezione cinese”.
La lotta di Xi contro la povertà passa attraverso i sussidi che lo Stato (arricchitosi attraverso una libertà economica controllata e funzionale al proprio sostentamento) elargisce ai poveri. Ma per ottenere quei sussidi i poveri debbono assoggettarsi completamente allo Stato. I credenti, per esempio, debbono abiurare, se vogliono percepire i sussidi: altrimenti possono pure continuare a restare poveri. Il comunismo ritarderà di un poco, ma quando i credenti riottosi saranno estinti per fame, lo Stato di Xi avrà avuto la meglio, pure risparmiando in sussidi. Come ha detto un funzionario del PCC a una sessantenne cattolica di Fuzhou, nella provincia sudorientale dello Jiangxi, che percepiva un sussidio mensile di 250 renminbi (circa 35 dollari statunitensi) dal 2018, anno in cui è morto suo marito, «visto che a darti da mangiare è il Partito Comunista, devi credere solo nel Partito, non in Dio»: come riferisce il quotidiano specializzato che si pubblica online in più lingue Bitter Winter, la colpa della donna è stata avere appese in casa immagini di Gesù. Episodi come questo si ripetono a centinaia in tutto il Paese per qualsiasi religione.
È questa versione perversa della Provvidenza il succo della “lezione cinese”. Quando lo Stato paga e sovvenziona, lo Stato decide, censura e obbliga. L’indipendenza economica è lo strumento che garantisce libertà e vita ai singoli, alle famiglie, a tutte le intraprese umane. Si dirà che noi non viviamo in Cina. Vero, per fortuna. Ma qual è la misura della libertà economica che garantisce la nostra vita nel cosiddetto mondo libero fra voucher, bonus e cose così? Nel 1912 lo scrittore anglofrancese Hilaire Belloc (1870-1953) lo ha chiamato «Stato servile», il denominatore comune delle 50 sfumature di rosso del socialismo contemporaneo, e ci siamo immersi tutti fino al collo. Attenzione sempre allo Stato, anche quando porta doni.