Last updated on Luglio 24th, 2021 at 11:19 am
Mi trovo d’accordo con Avvenire quotidianamente. Quando leggo la data del giorno sulla prima pagina in alto a sinistra. Per il resto valgono le parole dello scrittore tedesco naturalizzato svizzero Herman Hesse (1877-1962): anche un orologio rotto segna l’ora giusta ben due volte al giorno. Ma del fatto che quell’orologio sia guasto vi è una tale sovrabbondanza di prove che bisognerebbe passare il dì a segnarle a matita rossa. Ovviamente c’è ben di meglio da fare, ma ogni tanto il pitale si riempie e tracima.
Sabato 28 novembre Luciano Moia firma su Avvenire un’«analisi» intitolata L’identità di genere a scuola: perché se ne può parlare. È un’articolessa fumogena lanciata per benedire l’introduzione nella scuola italiana di quello «sbaglio della mente umana», come lo definisce Papa Francesco, che è la schifosa ideologia gender. Quella elaborata e promossa, cioè, da una pletora di forze ultimamente coalizzate attorno al «ddl Zan»: che sia il quotidiano della Conferenza episcopale italiana a farlo è però evangelicamente scandaloso. Attraverso l’articolessa di Moia si esprime infatti tutto Avvenire, dalla direzione ai fattorini. Cosa dovrà pensare il lettore degli azionisti di quell’orologio rotto in formato cartaceo?
Scrive Moia: «L’articolo 6 della legge Zan approvata alla Camera stabilisce che il 17 maggio di ogni anno venga celebrata la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, anche con iniziative organizzate dalle pubbliche amministrazioni e dalle scuole, comprese quelle primarie». Dunque, prosegue Moia, «[…] se ogni situazione è occasione, perché la legge Zan, pur con tutti i suoi aspetti problematici che abbiamo già messo in luce, non potrebbe rivelarsi un’opportunità anche in chiave educativa per riflettere, anche nelle scuole, su temi ormai irrinunciabili?».
Su Avvenire non si dovrebbe nemmeno leggere la domanda, ma la risposta è facile: perché portare l’ideologia gender nelle aule significa derogare alla funzione primaria della scuola, che è quella di educare alla realtà e alla ragione, e al posto di ciò accettare, e pagare, l’imposizione di un diktat contronatura, indegno ovunque, figuriamoci appunto a scuola.
Qualsiasi insegnante sa che lo sviluppo del senso critico degli alunni attraverso anche (mai solo) il confronto è da tenere sempre ben distinto dal falso mito del dibattito. Il confronto prevede infatti parametri di riferimento, guide e direzione, ovvero ordine; l’opinionismo, che funesta troppe nostre scuole con la pretesa dell’“attualità” e dell’“equidistanza”, dove tutto vale quanto il proprio contrario, è solo disordine e confusione. Poi ci sono gli ideologi travestiti da professori e da maestri, ma quelle sono truffe da denunciare all’autorità competente.
Il gender deve cioè stare assolutamente e sempre fuori dalla scuola perché non confronta ergo non educa, ma stupra e intorbidisce. Uno «sbaglio della mente umana», appunto.
Moia commenta: «La posizione secondo cui non sarebbe corretto affrontare a scuola questi argomenti perché “divisivi” o addirittura imbarazzanti non regge in alcun modo. I nostri ragazzi non solo ne parlano, cercano informazioni, si guardano dentro per capire e per capirsi, ma arrivano a definire come “normali” scelte che interrogano e, in molti casi, spiazzano noi adulti». Ciance. Quel compito, infatti, spetta sempre e solo alla famiglia.
Con i miei figli ho parlato sin da che eran piccoli e continuo a parlare di questi temi, apertamente, fornendo criteri, guida, confronto e ordine per prevenire ed evitare che lo faccia una persona diversa da mamma, papà, fratello, sorella, nonno, nonna, zia e zio un 17 maggio qualsiasi scelto da ideologi potenti al punto da imporre alla maggioranza del buon senso la minoranza del vizio. Soprattutto ai miei figli ho cercato e cerco di insegnare che è la famiglia il luogo di questa ricerca ordinata, non l’aula trasformata in bar sport dove dovrei pure pagare per corsi incubati nei pensatoi di qualche associazione LGBT+, magari per un insegnante trans, persino per un prete a cui va bene tutto tranne il Vangelo così che il governo non si rimangi l’8 x mille. La scuola per i miei figli l’ho scelta in base a criteri come questi, e mi sveno per pagarmela contento. Adoro infatti quelle scuole che la diseducazione sessuale, figuriamoci il gender, proprio la ignorano in aula, lasciando che il tema dell’affettività (ché questo è il punto nodale, mica la donna che “si sente” uomo o l’uomo che si amputa la virilità) la scuola lo affronti da par proprio, cioè attraverso la letteratura, la filosofia, la storia, la scienza, persino quella Cenerentola scomparsa da ogni radar, anche di Avvenire, che si chiama ora di religione, non per confessionalismo, di cui non mi importa un fico secco, ma perché in Italia vige un Concordato preciso con la Chiesa Cattolica.
Insomma, se ha il colore dello sterco e tanfa come lo sterco, qualsiasi genitore pure analfabeta sa che non serve che i suoi figli l’assaggino per sincerarsi che sia sterco. Ogni insegnante dovrebbe, al minimo, rispettare questo assunto basilare. Se poi altri, qualsiasi professione o arzigogolo intellettuale esercitino, preferiscono assaggiare, si accomodino.
In chiusa di articolessa Moia imputa il disorientamento vigente sul tema alla rinuncia alla potestà educativa operata da alcune famiglie. Ecco un caso dove l’orologio rotto Avvenire dà ragione a Hesse. Ma la soluzione non è la deportazione dei figli di quelle famiglie nei centri di rieducazione Zan.
Anche soltanto ipotizzare che vi siano delle «[…] intenzioni migliori» nella legge Zan, come scrive Moia, grida vendetta. Aggiungere «[…] non è stravagante cogliere nell’articolo della legge che sollecita le scuole ad approfondire, insieme alla questione omofobia, gli indispensabili aspetti antropologici per comprenderne significati e relazioni, un’occasione per capire e accompagnare il cammino dei nostri figli più disorientati» è inaudito. No, mi sbaglio clamorosamente: si sente ripetere sin troppo spesso da pulpiti che invece non dovrebbero. Ma così Avvenire mina alla base gli sforzi che decine fra associazioni, persone, mamme, papà, insegnanti, comunicatori, sacerdoti e uomini politici profondono ogni giorno per difendere quel minimo di senso comune che nel quotidiano dei vescovi italiani dovrebbe avere un alleato. Va però riconosciuto che Moia ha molto mestiere. I suoi «pur considerando i rischi ideologici oggettivi e già evidenziati» sono grandi artifizi retorici lubrificanti. Avvenire ha scelto di farsi includere. O per un malriposto e inqualificabile sentimento di «Vengo anch’io» prima che i «No, tu no» serrino definitivamente il portone. Oppure perché condivide sul serio l’ideologia gender. Mi auguro ovviamente sia per il primo motivo.