Vandalizzata la sede romana di Pro Vita & Famiglia

Dopo i cartelloni imbrattati, ora è toccato ai locali dell'associazione. Il mandante è la politica

I fatti sono noti. Prima “qualcuno” ha imbrattato i manifesti affissi dall’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus in varie città italiane in vista dell’8 marzo, che ritraggono un bebè nel grembo materno, presumibilmente una bambina, con l’invito a rispettare e a celebrare veramente e degnamente le donne, anzitutto permettendo loro di nascere.

Nel frattempo l’assessore alle Attività produttive e pari ppportunità del Comune di Roma, Monica Lucarelli, ha annunciato di volerli comunque rimuovere, perché violerebbero «i regolamenti comunali per il loro contenuto violento, sessista e lesivo della dignità e dei diritti personali».

Nella notte fra sabato e domenica “qualcun altro” ha vandalizzato la sede dell’associazione in viale Manzoni, sempre a Roma, con parolacce, insulti e inneggiando alla libertà di abortire come a un diritto della persona. Questa notte, l’attacco si è ripetuto, e di nuovo la firma è la medesima: quella del collettivo sedicente femminista di «Non una di meno».

«iFamNews» manifesta la propria solidarietà agli amici di Pro Vita & Famiglia e parla dell’accaduto con Maria Rachele Ruiu, una dei portavoce dell’associazione.

Non è la prima volta, andando a memoria, che le autorità rimuovono i manifesti contro l’aborto della vostra associazione.

No, infatti, è già accaduto altre due volte. L’immagine in questione è per altro assolutamente tenera, non contiene in alcun modo nulla di sessista o discriminatorio e rispetta completamente la normativa vigente.

Come vi spiegate l’aggressione alle serrande e ai muri della vostra sede, con insulti e contestazioni per esempio all’obiezione di coscienza?

Guardi, questi attacchi portano chiara una firma, si vede bene nelle foto. In ogni caso, le responsabilità del gesto saranno appurate grazie alle telecamere, che hanno ripreso l’accaduto. Vi è però un mandante, mi permetta di dirlo, e quel mandante è la politica. Annunciare la rimozione dei manifesti, appigliandosi a regolamenti comunali che non riguardano in realtà la fattispecie dei nostri cartelloni, implica una responsabilità.

Per quale motivo pensate sia in atto ciò che chiamate esplicitamente una censura?

Il manifesto è molto tenero. Nessuno ha saputo rispondere alla domanda: cosa c’è di terribile in quella bimba, e nell’invito a farla nascere? La verità è che oggi, in Italia, a partire da Roma, non si può più parlare di vita, né pertanto di aborto. Pare di essere passati dal “diritto” all’aborto, che comunque non esiste, al “dovere”. Nessuno si deve permettere di provare ad accogliere le donne, con i loro figli, inaspettati. Non si può promuovere nulla se non l’aborto. Addirittura vorrebbero impedire alle donne che hanno subito un aborto spontaneo di seppellire i propri figli, di avere uno spazio dove piangere, tanto è il livore. Il problema non è l’azione sciagurata di qualche esaltata, ma il furore ideologico che vi sta dietro e che ne arma la mano con vernice e pennelli.

Quale rischia di essere la conseguenza di questo «furore»?

La conseguenza non è un rischio, è reale: le donne, di fronte a una gravidanza, specie se inaspettata, sono sole. Completamente sole. “Il corpo è tuo e te la gestisci da sola!”. Tra l’altro mi si permetta di domandare: dove sono le fantomatiche “autodeterminazione” e “scelta” se non permetti a nessuno di indicare a queste donne l’altra possibilità? Se cerchi di impedire a chiunque di farsi prossimo e offrire aiuto? Se neghi le conseguenze psicologiche e fisiche dell’aborto? Nessuna donna desidera abortire come desidera un gelato, e per accertarsi di questo, basterebbe chiedere a chi ha abortito: come è stato? Come stai? E la risposta a questo “come stai?” è motore del mio impegno, che questi gesti non intimidiscono, ma energizzano: per lasciare ai miei figli la possibilità di conoscere un mondo migliore, dove l’aborto sia impensabile, e la donna accolta, non abbandonata al “è una tua scelta”.

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