Storia di Achala, che rivela il volto sempre horror dell’aborto

“The Telegraph” racconta la storia di una donna dello Sri Lanka che ha abortito clandestinamente. Ma restano sospese tante, troppe domande che nessuno vuole porsi

Sri Lanka, donne lavorano nei campi del the

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Last updated on Agosto 24th, 2020 at 01:53 pm

Achala è una donna di 36 anni che vive nella città di Negombo, in Sri Lanka. Achala è seduta nella propria piccola casa, una casa senza né orpelli né moderne tecnologie. Achala è mamma di un bambino di quattro anni, e racconta la seconda gravidanza, interrotta con un aborto tre anni fa. La scena è descritta da Meghan Davidson Ladly, giornalista di The Telegraph, in un lungo e articolato reportage che spiega come in Sri Lanka le leggi sull’aborto siano tra le più restrittive al mondo. A causa di ciò, spiega il reportage, gli aborti clandestini sono centinaia ogni giorno. Per questo, lascia intendere ancora il reportage, è lecito sperare in una nuova legislazione che consenta a tutte le donne di abortire liberamente.

La storia

Ma Achala non è una donna sola: ha un marito, il padre del suo primo figlio. L’uomo è però un alcolizzato, convinto che questo secondo figlio in arrivo sia frutto di una relazione extraconiugale della donna. Lei nega, ma teme di essere abbandonata e ripete alla giornalista: «So che è illegale. È sbagliato. È pure un peccato, ma ho dovuto farlo perché non avevo scelta». La donna era terrorizzata all’idea che il secondo figlio dovesse crescere in un ambiente così ostile. Per questo si è recata in una clinica privata, alla quale ha versato un quinto del proprio stipendio mensile, dove l’aborto è stato compiuto. Come? Somministrandole mifepristone e misoprostolo, due medicine ufficialmente illegali ma in grado di provocare efficacemente l’aborto.

Dopo qualche tempo, infatti, Achala ha iniziato ad accusare perdite di sangue, ed è tornata in clinica per terminare l’interruzione di gravidanza. Ora, spiega la Ladly, Achala è terrorizzata all’idea che il marito o qualche vicino possa scoprirne la storia. Perché in quel caso rischierebbe fino a tre anni di carcere e una pesante sanzione di natura economica.

Le domande sospese

Il reportage, che concede ampio spazio alle condizioni avverse nelle quali si trovava Achala, non si sofferma però sui dettagli dell’aborto. Non riporta le sensazioni che la donna ha provato mentre prendeva quelle pastiglie, mentre di nascosto dal mondo poneva fine alla vita del proprio bambino. Il reportage non indaga le ripercussioni emotive, psicologiche e fisiche che hanno segnato i tre anni successivi all’aborto, limitando i sentimenti di Achala alla paura di essere scoperta.

Non è ben chiaro poi il ruolo del marito: una presenza così ingombrante da costringere Achala a scegliere l’aborto, ma allo stesso tempo quasi invisibile una volta compiuto l’atto.

La donna teme di essere scoperta, ancora oggi dopo tre anni: cosa sa il marito della seconda gravidanza? Ha mai chiesto notizie del bambino? Perché, se la paura è così grande, decidere di raccontare la propria storia a una giornalista, sapendo che la notizia potrebbe girare il mondo intero?

La scelta obbligata

Tutto, nel lungo articolo della Ladly, conferma la bontà della scelta di Achala. Per esempio le parole di Anton Marcus, segretario generale del sindacato dei dipendenti dei servizi generali. Achala è operatore di macchine da cucire, dunque appartiene a questo sindacato. Marcus racconta che spesso le giovani lavoratrici sono abusate dai datori di lavoro e dunque «consentire loro di abortire è la cosa migliore. Alcune ragazze si sono suicidate a causa di questa situazione, non possono affrontare le loro famiglie, non possono affrontare la società, quindi prendono la loro decisione».

Manca nell’intervista la seconda domanda: “Sindacato, perché non combatti gli abusi perpetrati ai danni delle impiegate?”

Risulta difficile non notare una sorta di alleanza non scritta tra uomini, un vero esempio di mascolinità tossica: le donne sul posto di lavoro possono essere abusate senza che il sindacato intervenga. Anzi, meglio rendere più accessibile l’aborto, così i violentatori si sentiranno ancora più liberi. Dipendente, con condizioni contrattuali disumane, e oggetto del desiderio usa e getta.

Subha Wijesiriwardena, coordinatrice al Women and Media Collective, punta il dito contro la Chiesa Cattolica: «Il discorso principale è un discorso moralistico», afferma. «Avere il peso di tale criminalizzazione causa ovviamente molti problemi in termini di accesso ai servizi e generalmente aumenta lo stigma e la segretezza intorno alla salute sessuale e riproduttiva».

In realtà i cattolici sono solo il 6% della popolazione dello Sri Lanka, ma, secondo la Ladly, «sono decisamente contrari all’aborto e hanno un’influenza sproporzionata». Sarebbe da attribuire ai cattolici anche la chiusura delle cliniche per l’aborto gestite dalla ONG Marie Stopes International, uno dei maggiori abortifici del mondo.

I dati sulla sanità però, come riporta sempre l’articolo pubblicato da The Telegraph, mostrano come lo Sri Lanka sia un’isola felice rispetto ai Paesi più vicini. Basti pensare alla mortalità materna: «Nel 2017 si sono verificati 36 decessi ogni 100mila nati vivi rispetto ai 145 in India e 173 in Bangladesh». Secondo gli ultimi dati ufficiali, che risalgono al 1998, nel Paese potrebbero avvenire oltre 650 aborti ogni giorno. E proprio nelle pratiche di aborto si registrano i più gravi problemi di salute: nel 2014 il 12,5% degli aborti clandestini ha comportato la morte della madre.

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TheTelegraph, conosciuto anche come The Daily Telegraph, giornale britannico fondato nel 1855, uno degli ultimi al mondo a essere stampato ancora oggi in formato broadsheet, rinuncia però a fare altre domande. Per esempio: se la sanità neonatale funziona bene, perché non investire per potenziarla ancora? Se le donne si sentono sole in una società maschilista, perché non iniziare a cambiare la cultura, ponendo al centro la dignità di ogni essere umano? La dignità quindi degli uomini, delle donne e anche dei bambini non nati.

Ancora: come sta davvero Achala? Perché non si può credere che, dopo una storia del genere, il suo unico dolore venga dalla paura di essere scoperta. Come convive con il suo dolore? Sa che la sua storia viene raccontata non per aumentare i diritti delle donne, ma per rendere più facile abortire? Anche qui in solitudine, con una pastiglia e via. Poi la donna può tornare a dividersi tra una fabbrica, dove lavora come una schiava e non può opporsi neanche alle avance del datore di lavoro, e una casa, dove il marito è un alcolizzato maschilista. La soluzione a questo orrore non può essere un nuovo dolore.

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