Sì, i film LGBT esistono solo per propaganda

Il nuovo “corto” su Disney+ pianta un’altra “bandierina” arcobaleno nel panorama della programmazione rivolta ai più giovani

Fotogramma dal trailer del film che mostra la foto di Greg e Manuel

screenshot from the trailer

Last updated on Giugno 16th, 2020 at 03:31 am

Evidentemente, Out sta per coming out.

In realtà è un cartone animato della durata di 9 minuti, diretto da Steven Clay Hunter, e fa parte di una serie in cui i creatori della Disney Pixar presentano progetti indipendenti. Intanto è stato trasmesso sul canale dedicato a bambini e ragazzi.

Racconta la storia del giovane Greg che convive con un altro ragazzo e che, aiutato da un cagnolino e dal solito pizzico di magia degli Studios, riesce infine a rivelare ai genitori la propria omosessualità. Riceve naturalmente la loro benedizione perché, si sa, «love is love».

Tre mesi fa era stata la volta di Onward, preceduto nel tempo da Alla ricerca di Dory (2016), La Bella e la bestia (2017), Toys Story 4 (2019) e Star Wars. L’ascesa di Skywalker (2019).

In questi casi, però, si trattava di brevi fotogrammi e infatti una delle accuse rivolte a chi non aveva gradito la presenza di personaggi omosessuali nelle pellicole destinate a bambini e adolescenti era stata quella di esagerare, di “montare un caso” per un nonnulla, e così via.

Nel frattempo, si è assistito al linciaggio mediatico della giornalista e autrice Costanza Miriano, a seguito del post su Facebook in cui aveva messo in risalto la campagna di CitizenGo per il boicottaggio della Disney Pixar, proprio a causa della propaganda LGBT+ che la casa di produzione propone a livello internazionale, e aveva dichiarato di aver disdetto l’abbonamento al canale Disney+.

La giornalista è stata costretta a modificare la privacy del proprio post dopo che la tempesta arcobaleno ha coperto di bestemmie e insulti irripetibili lei e tutta la sua famiglia.

Con Out si assiste invece non solo alla rappresentazione di un personaggio principale dichiaratamente omosessuale, ma anche alla narrazione esplicita delle difficoltà vere o presunte nel farsi accettare dagli altri, sino al compimento in senso risolutivo della vicenda e a un “lieto fine” in cui tutti vissero “felici e contenti”.

Kimberly A. Taylor, docente associata di Marketing e logistica nella Florida International University di Miami, ha affermato, su The New York Times, che la Disney Pixar «[…] riconosce come la “rappresentazione sia importante” per i grandi e per i piccoli schermi. […] “Vedere se stessi, la propria comunità, sullo schermo aiuta a sentirsi apprezzati e valorizzati, e dà un senso più ampio di ciò che è possibile”», ha detto «[…] e da parte di Disney Pixar si tratta anche semplicemente di buoni affari. Ovviamente si rendono conto che il loro pubblico, o potenziale pubblico, include la comunità LGBTQ».

Tutto è più chiaro. In primo luogo la Taylor sottintende il concetto di rappresentazione sugli schermi come legittimazione di un comportamento, dando così ragione implicitamente a chi parla di «propaganda», se non addirittura «indottrinamento» nei confronti dei più giovani. Così ha fatto, per esempio, l’associazione statunitense pro life One Million Moms a proposito della pellicola, con una petizione  rivolta al CEO di The Walt Disney Company, Bob Chapek, firmata attualmente da più di 21mila persone.

Successivamente, ed è docente di Marketing non per nulla, focalizza il punto e centra il bersaglio: la finalità ultima è quella di ampliare il più possibile il pubblico e fare «semplicemente buoni affari». Come volevasi dimostrare.

Out sta per coming out: vuoi vedere che il + del canale tematico Disney è un messaggio subliminale per LGBT+?

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