Last updated on Dicembre 9th, 2020 at 04:42 am
Giovedì 19 novembre ho pubblicato un editoriale per dare eco a parole importantissime per i cattolici e per i non cattolici, parole di mons. José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza dei vescovi cattolici statunitensi. La mia è ovviamente solo una goccia che non può far mutare il livello dell’oceano, ma mi pareva doveroso farlo, e giusto, visto che la stragrande maggioranza dei media italiani, anzitutto quelli cattolici e autorevoli, delle parole spese dal presule davanti a un’assise importantissima e al mondo intero si sono fatti un baffo come se avesse parlato Paperino.
Solo per questo motivo, non certo per titillare il narcisismo né dell’arcivescovo né del sottoscritto, l’editore e io abbiamo pensato di favorire la circolazione di un pensiero e di un giudizio tanto cristallini quanto decisivi su quei fondamenti della convivenza umana che chiamiamo democrazia attraverso un’inserzione a pagamento su Facebook del mio editoriale. E Facebook, dopo averla messa in quarantena per esaminarne il contenuto come usa giustamente fare, ha rifiutato l’inserzione. Come se fosse stata una foto porno (che comunque su Facebook circolano), come se fosse stata una bestemmia (che comunque su Facebook circolano), come se fosse stata un simbolo nazista (che comunque su Facebook circolano, i simboli del comunismo assassino non avendo invece mai avuto problemi).
Perché? Perché si tratta di propaganda politica, dice Facebook, e a Facebook la propaganda politica non piace.
Ora, Facebook non uno strumento privato. È per definizione una piazza pubblica. Se fosse privato, si chiamerebbe “Intrafacebook” e non ci si potrebbe entrare se non con invito riservato e abito adatto. Insomma, chi osa sfidare il ridicolo dicendo che un social media non sia un’agorà? Se mancasse il pubblico, e la dimensione pubblica, ogni social, per primo Facebook, sarebbe niente.
Facebook è dunque un’azienda non statale che svolge un servizio pubblico. Di intrattenimento, di socializzazione (anche non solo virtuale), di informazione, e così via. Chi vi apre un profilo o una pagina o un gruppo sceglie in quale casella accasarsi per definire la propria ragione d’essere in quella pubblica piazza virtuale (e non solo).
Le regole di Facebook, insomma, le fa Facebook, sacrosanto, non ci piove. Chi si affaccia su quella piazza implicitamente ed esplicitamente le accetta. Ma che regola è quella di impedire a una piazza pubblica di essere una pubblica piazza?
Arriviamo adesso alla questione della «politica». «Politica» deriva da πόλις, polis, «città». È il governo della città, dove «governo» vale “gestione dello stare assieme” e «città» indica “un gruppo di persone”. Ovvero tutto è politica, sempre: non nel senso ideologico con cui lo intendevano le Sinistre contestatrici nel Sessantotto e seguenti, ma nel senso vero secondo cui ogni gesto fatto in pubblico da qualsiasi persona incide, in misure variabili, direttamente e indirettamente, sul modo generale di stare assieme delle persone.
Se io posto un meme su Instagram, se faccio gli auguri a un amico via Twitter, se diffondo la citazione di un libro che mi ha colpito come fa spesso un caro amico su Facebook compio un gesto indubbiamente politico. Un gesto non diverso dal promuovere un articolo (mio) in cui l’arcivescovo di Los Angeles e presidente della Conferenza dei vescovi cattolici statunitensi (lui) pone una questione tanto principiale per tutti quanto lo è dire che se Joe Biden diventasse presidente degli Stati Uniti la sua nota e notoria politica filoabortista sarebbe un grave handicap per la comune degli uomini. E menomale. Cosa esistono a fare altrimenti le piazze pubbliche, virtuali e fisiche, se non per costruire assieme, giorno dopo giorno, direttamente e indirettamente, quell’aspetto basilare della democrazia che è il confronto sulle opzioni negoziabili e la difesa di ciò che non si può invece mai calpestare? Forse che per caso esista qualcuno che, apertamente, osi definire virtuosa e auspicabile la società che ponesse a principio non negoziabile di sé la soppressione sistematica del prossimo? Nemmeno Adolf Hitler, Stalin, Mao Zedong, Enver Hoxha e Pol Pot lo hanno mai detto. Nemmeno La macchina del tempo (1895) di H.G. Wells (1866-1946), dove pure questo accade, lo dice. Lo fa, ma non lo dice.
Ora, perché allora Facebook si sottrae alla regola aurea di quella democrazia che invece sostiene di contribuire a forgiare mettendo a disposizione di tutti la propria piazza virtuale dove tutto, ma proprio tutto, da come mi vesto a ciò che mangio, è politico e dove tutto è permesso tranne foto porno (che comunque su Facebook circolano), bestemmie (che comunque su Facebook circolano), simboli nazisti (che comunque su Facebook circolano, i simboli del comunismo assassino non avendo invece mai avuto problemi) e parole libere e vere di un arcivescovo nonché presidente di conferenza episcopale?
Se tutto è politica, perché allora Facebook censura solo una parte della politica? Perché non censura i governi, i primi ministri, i ministri secondi, i leader di partito e le loro menzogne palesi?
Intitolo questo editoriale Se Facebook censura il capo dei vescovi americani. Mi si dirà che non è così. Si dirà che Facebook ha semplicemente oscurato un piffero come il sottoscritto. Frottole. Io sono nulla. Anche mons. Gómez è nulla. E tutta questa faccenda non è affatto una bega interna al mondo cattolico. Qui si parla della prima pietra su cui fondare una società che voglia definirsi minimamente umana e Facebook a questo mette il bavaglio. Facendo l’inchino, col sorrisetto, millantando scuse, ma censura.
A questo punto mi punge vaghezza di sapere se Facebook abbia mai censurato l’inserzione di qualcuno che avesse cercato di promuovere lo scappellarsi genuflesso dei potenti del mondo alla possibilità che Biden e signora (Kamala Harris) diventino presidente (e vicepresidente) degli Stati Uniti o l’abbracciarsi addosso del Commissario Paolo Gentiloni.
Se questa vaghezza pungesse pure voi, postate, ri-postate e ancora postate il mio editoriale con le parole di mons. Gómez e pure questo secondo mio editoriale a tema. Esercitiamo insomma la democrazia sulla piazza pubblica per contribuire alla politica buona e dire ancora una volta cosa è il principio primo della convivenza umana. I censori antidemocratici si irriteranno, ne vale la pena.