Last updated on aprile 14th, 2020 at 10:09 am
L’emergenza coronavirus, insieme alle precauzioni giuste e doverose, porta con sé sia un rischio sia un’occasione.
Il rischio è quello, in parte istintivo, dell’individualismo: chiudersi in casa (solo) per non prendere il virus e non (anche) per evitare che altri lo prendano. È istintivo perché viene spontaneo contentarsi della propria sanità, considerando il prossimo l’“untore”, specie se tossisce o se oltrepassa la distanza di sicurezza che non è più quella tra automobilisti, bensì tra pedoni. Il rischio sta dunque nel limitarsi a tenere al riparo sé stessi e i propri cari, e alla larga tutti gli altri.
L’occasione, favorita anche dal blocco forzato di molte attività, sta in un tempo ritrovato e rinnovato di riflessione sullo sguardo che la nostra società ha verso la debolezza, la malattia e la morte, magari con un occhio alla storia e, in particolare, alla storia dell’arte.
Dall’immenso museo che il web mette a disposizione, certo non in grado di sostituire la visione diretta della tela o della tavola, ma sicuramente utile in questi giorni di autoisolamento collettivo, riaffiorano opere il cui filo conduttore sta proprio nella solidarietà concreta e fattiva verso i più fragili. Opere che permettono di spingersi, con il pensiero, un po’ al di là di certi slogan per cui la nostra sarebbe una società sempre e comunque evoluta, mentre in passato si ricorreva meramente al cerusico e al salasso. Certo, è indubbio che i mezzi a disposizione oggi siano nettamente – e felicemente – superiori rispetto a qualche decennio o secolo fa. Ma, lo storico Franco Cardini ammonisce: «Attenzione a definire quelle pre-illuministiche come credenze pseudo-scientifiche. Erano le risposte che il sapere di allora riusciva a dare per fronteggiare l’epidemia. Tra pochi decenni diranno le stesse cose delle odierne soluzioni proposte dalla medicina contro il Coronavirus». Osservazione di buon senso, quella di Cardini, ma i pregiudizi sono duri a morire, specialmente quel pregiudizio supremo per cui ciò che viene dopo è sempre meglio di quanto c’era prima (speculare ed errato tanto quanto un’aprioristica laudatio temporis acti).
Homo homini angelus
Ora, fermo restando che siamo tutti molto felici di avere a disposizione cure mediche moderne, tecnologie avanzate, ospedali (che peraltro furono inventati nel Medioevo), ambulanze e ambulatori, e anche se non c’entra mettiamoci pure il bidet, che unisce sempre modernità e orgoglio patrio, è insomma inevitabile chiedersi: le cure medioevali sono superate, ma lo è anche “la cura” medioevale? Quello sguardo totale sull’uomo che si trova a vivere nelle situazioni di maggiore fragilità, ha ispirato l’idea – tutt’altro che scontata in precedenza – per cui il debole vada curato, in quanto uomo, non solo per la sua maggiore o minore “utilità”. E ha ispirato anche un filone forse non molto rappresentativo nella storia dell’arte, al contrario di altri generi più “inflazionati”, ma sicuramente rappresentativo di un certo tipo di società, di un clima e di un approccio verso l’umana fragilità.
Il riferimento è alle “classiche” opere di misericordia corporali: quelle spirituali, oltre che più dimenticate, per natura sono anche più difficili da rendere visivamente (ma non impossibili, come mostrano i bassorilievi realizzati nel secolo XVIII dallo scultore italiano Antonio Canova [1757-1822] che ne raffigura entrambe le serie). Opere, per così dire “classificate” e benedette nel Vangelo (cfr. Mt 25), che tuttavia consistono, in ultima analisi, in quei gesti essenziali della solidarietà umana che rendono l’uomo homini angelus, anziché homini lupus. Gesti che cambiano il “paradigma” anche a “cielo chiuso”, nel secolo XV come nel secolo XXI. Del resto, sin dai tempi più remoti una delle più pietose tra le suddette opere, la sepoltura dei morti, è segno certo di presenza e di civiltà umana. Ne deriva un genere artistico, dunque, poco considerato, forse persino sconosciuto al grande pubblico, ma che si rivela – senza neanche dover scavare troppo in profondità – sorprendentemente fecondo e con particolare densità nel periodo compreso tra il cosiddetto “autunno” del Medioevo e la prima età moderna.
Dall’ultima decade del Trecento risulta attivo nell’anconetano Olivuccio di Ceccarello da Camerino (m. 1439), di cui la Pinacoteca Vaticana custodisce sei tavole raffiguranti altrettante opere di misericordia dipinte per la chiesa (appunto) della Misericordia di Ancona. Sei e non sette, dal momento che due di esse (dar da bere agli assetati e ospitare i pellegrini) sono riassunte in una sola scena. Un dettaglio colpisce nelle tavole di Olivuccio: un’aureola dorata, identica a quelle dei santi, circonda il capo, di volta in volta, del pellegrino alloggiato, dell’ignudo rivestito, dell’affamato nutrito, del malato visitato, persino del defunto sepolto. È paradossale: non è il benefattore a essere “premiato” con l’aureola, poiché in essa piuttosto risplende non solo il Destinatario ultimo (cfr. Mt 25, 40) di quei piccoli (e umani) gesti, ma – ancora, anche “a cielo chiuso” ‒ la dignità del più fragile. C’è da riflettere, tra l’altro, su una certa (anti)estetica del “sociale” la quale, forse timorosa che il debole e il povero possano essere in qualche modo offesi dal bello, sembra quasi volerli condannare al grigiore (altrimenti non sarebbero più… ultimi?), dimenticandone però in tal modo proprio quella dignità che vorrebbe tutelare.
Non se ne ha più bisogno?
Al 1511 risale la serie del Maestro della Fonte della Vita (un pittore anonimo, così definito dall’opera principale con cui è stato identificato). La tavola, conservata a Enschede, nei Paesi Bassi, è divisa in nove riquadri. Oltre alle sette opere sono raffigurati anche i due committenti, protagonisti essi stessi delle scene restanti: sono loro a visitare gli ammalati e i carcerati, a cibare gli affamati e così via.
Il capolavoro più celebre, però, all’inizio del secolo XVII è quello di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Conservata presso il Pio Monte della Misericordia a Napoli, la sua grande tela le racchiude tutte in un’unica, concitata scena, scolpita dal tipico contrasto luce-ombra del maestro lombardo.
E dopo Caravaggio? Nei secoli seguenti si distingue il già citato Canova o, più vicino a noi, le vetrate di Édouard Didron (1836-1902), forse non a caso in corrispondenza del revival medioevale che segna il passaggio tra il secolo XIX e il secolo XX. Ma, almeno quantitativamente, sono tracce sempre più episodiche, man mano che la “densità” creativa dei secoli precedenti diviene più rarefatta. Segno che le si sono dimenticate? O che non se ne ha più bisogno? Questi dipinti (o sculture) offrono lo spaccato di una società ormai finita e, come è noto, indietro non si torna. Ma affacciandosi, attraverso di esse, tra le vie di una città medioevale, percorrendola con i bastoni e con le bisacce dei pellegrini, aggirandosi tra i letti di un lazzaretto, s’intravvede qualcosa che parla ancora oggi.