Last updated on Febbraio 15th, 2020 at 12:18 am
L’International Federation for Family Development (IFFD), un’organizzazione-ombrello che raduna a livello internazionale Ong e associazioni per la famiglia, a metà gennaio ha affrontato in sede europea il tema spinoso della grave crisi demografica. Al Comitato Economico e Sociale Europeo ha esposto la propria analisi e le proprie soluzioni partendo da questo dato: «La popolazione sta crescendo più lentamente e si prevede che si ridurrà ulteriormente nel lungo periodo. Appena il 6,9% oggi, la UE rappresenta una percentuale della popolazione mondiale in forte calo, una percentuale che si prevede si ridurrà ulteriormente ad appena il 4,1% alla fine del secolo».
Se l’Europa scompare, perché non si fanno più figli, quali sono le soluzioni? Le proposte dell’IFFD sono in linea con le politiche mainstream europee in un ambiente di condivisione, sostenibilità (ambientale) e connettività (tecnologica). In pratica le soluzioni consisterebbero in una riforma del welfare che presti maggiore attenzione alla famiglia, sostenendo maggiormente il principio dell’inclusione (“nessuno deve essere lasciato indietro”). Le politiche europee per affrontare il problema di una popolazione che invecchia sono incentrate su un interventismo statale volto a riconciliare la vita lavorativa e quella familiare. Fra le altre proposte del prossimo “Green Paper” sulla sfida demografica si parla quindi di aumentare l’occupazione e la qualità del lavoro, accogliere e integrare gli immigrati, aumentare gli investimenti per l’istruzione e assicurarsi una spesa pubblica sostenibile per garantire pensioni adeguate e un buon sistema sanitario. Per quanto riguarda la protezione dei minori, la strategia europea si basa appunto su un principio di inclusione: maggior partecipazione dei minori alle politiche che li riguardano, maggior protezione dalle aggressioni, un sistema di giustizia più “amico” dei bambini, implementazione dei diritti dei minori su Internet (anche per proteggerli da violenza ed effetti indesiderati del lato oscuro del web).
L’IFFD, coerentemente con queste linee-guida, propone anch’essa una serie di misure di welfare miranti alla protezione della famiglia, sia a livello di Unione sia di singolo Stato membro. A livello di Unione si suggerisce, per esempio, il ripristino della Piattaforma europea per l’infanzia, l’aumento degli investimenti per una politica delle famiglie e il cambiamento dei ritmi di lavoro per conciliare vita lavorativa e familiare. A livello nazionale, invece, figurano misure quali il congedo di maternità e di paternità di pari livello, un maggiore accesso alla sanità per i bambini, politiche che consentano l’allattamento al seno, ma anche maggiori opportunità di educazione parentale, alternativa, dunque, alla scuola di Stato.
Quando riformare non serve
Ma è sufficiente riformare il welfare state, aggiungendovi soltanto un po’ più di attenzione alla famiglia? Si pensi a questo solo dato, citato più volte anche dal cancelliere tedesco Angela Merkel: la UE costituisce il 6,9% della popolazione mondiale, ma assorbe il 50% della spesa pubblica destinata nel mondo al welfare state. Evidentemente c’è un problema, un nesso che pochi osservatori e pochissimi politici vogliono guardare, fra le dimensioni crescenti del welfare state e la decrescita demografica.
L’economista statunitense Daniel Mitchell contesta in modo tagliente la logica con cui gli Stati europei, e non solo, stanno affrontando la crisi demografica attuale: tutta la loro preoccupazione è generare nuovi contribuenti, come afferma per esempio in questo articolo pubblicato dal think tank di Atlanta, in Georgia, Foundation for Economic Education. Visto che un crollo numerico delle giovani generazioni porterebbe a un collasso del sistema pensionistico così come è stato concepito sin dai tempi del cancelliere tedesco Otto von Bismarck (1815-1898), gli Stati hanno iniziato a preoccuparsi del calo delle nascite. Ma gli incentivi statali a fare più figli non sono una soluzione. Mitchell cita studi che rilevano come proprio l’aumento degli investimenti nelle pensioni abbiano portato a un calo delle nascite. Le pensioni sono dunque a monte e non a valle del problema demografico.
Mitchell cita una raccolta di studi firmata da Ramesh Ponnuru sul periodico statunitense National Review in cui si rileva che i sistemi pensionistici «si sono espansi e il tasso di fertilità si è ridotto su entrambe le sponde dell’Atlantico dopo la Seconda guerra mondiale, e maggiormente in Europa dove il tasso di fertilità si è ridotto di più. […] Quando un sistema pensionistico si espande del 10% del Pil, il numero medio di figli per donna si riduce dello 0,7%-1,6%». Non è una correlazione assurda: il sistema pensionistico, prima e più importante voce di ogni welfare state, introduce la logica della torta: meno si è, più grandi sono le fette da spartire.
Basta allora cambiare la logica del welfare, spostando risorse dalle pensioni ai figli? Anche questa è una logica rischiosa. Come infatti dimostra chiaramente uno studio di Robert Rector della HeritageFoundation di Washington, l’aumento del welfare, in sé, è alla base del crollo del numero di matrimoni, dunque della crisi della famiglia. Se fino al 1964 solo il 7% dei bambini nascevano da madri non maritate, nel 2013 la percentuale è salita al 40%. Cosa è accaduto nel mezzo? È accaduto che nel 1964 l’Amministrazione statunitense retta da Lyndon B. Johnson (1908-1973) abbia lanciato la politica di “lotta alla povertà” predisposta dal suo predecessore alla presidenza, John F. Kennedy (1917-1963). Da allora il welfare è cresciuto quasi costantemente. Il perché della correlazione “più welfare, meno famiglie” è presto detto: il matrimonio incoraggia l’autosufficienza, il welfare crea dipendenza dallo Stato e dunque rende superflua la famiglia.
Non è solo riformando il welfare, insomma, che si può tornare ad avere un continente in crescita demografica, bensì facendo un passo avanti: ripensando completamente il rapporto fra Stato e cittadino.