Last updated on marzo 15th, 2021 at 09:52 am
Sono ormai passati dodici anni da quando Eluana Englaro (1970-2009) è morta, il 9 febbraio 2009. Le ultime, convulse ore passate al Senato per tentare di salvarle la vita con una legge apposita, le ricordo minuto per minuto. Ma nell’opinione pubblica e nella classe politica attuale, di quella generosa, appassionata battaglia si è persa completamente la memoria. Su questa storia ho scritto un libro, Eluana non deve morire: la politica e il caso Englaro, per ristabilire alcune verità, e l’ho scritto dopo tanto tempo, dieci anni, proprio perché tutta la vicenda sembra essere cancellata e dimenticata, quasi non fosse mai accaduta. Invece è accaduta.
Il presidente del Consiglio era, all’epoca, Silvio Berlusconi. Io ero sottosegretario al ministero della Salute, del Welfare e del Lavoro, a quel tempo unificato, e il ministro era il senatore Maurizio Sacconi. Dal luglio 2008 a quel 9 febbraio del 2009, la politica è stata investita da domande inquietanti, che scuotevano le coscienze: è possibile lasciar morire una persona gravemente disabile sospendendole nutrizione e alimentazione, togliendole cioè cibo e acqua, anche se è stato un tribunale a stabilirlo? È ragionevole che a fare tutto questo siano quelle stesse strutture pubbliche che dovrebbero garantire la cura, la vita e la salute dei cittadini? È giusto che lo Stato possa dare la morte? Erano domande sui compiti, i limiti e il significato del diritto della politica, delle istituzioni; sul senso della nostra Carta costituzionale, sui valori su cui il nostro paese si fonda, ma soprattutto sul nostro essere comunità solidale. Una comunità, avrebbe detto Leonardo Sciascia (1921-1989), di “uomini umani”.
La politica può essere la più alta forma di carità
La risposta di un gruppo di persone, che condividevano una passione politica pur con provenienze e visioni differenti, è stata immediata e netta. No, non si può fare, non si deve fare. Se si guarda adesso ai giornali di allora, ci si stupisce per la ricchezza degli interventi, il loro numero e spessore. Si pronunciavano professionisti ma anche associazioni, le più diverse; prendevano posizione pubblicamente magistrati, sindaci, cantanti, medici, vescovi, giornalisti e intellettuali, da una parte e dall’altra, scegliendo di schierarsi. Davanti alle foto di Eluana sorridente, che nessuno di noi aveva conosciuto, immaginandola nel suo silenzio misterioso, amorevolmente custodito, per anni, dalle suore di Lecco, era impossibile essere indifferenti, voltarsi dall’altra parte. Non c’erano ancora i social, e la potenza della rete non era dispiegata come lo è adesso, ma quella vicenda ha raggiunto capillarmente tutti, nel Paese.
Un dibattito pubblico così acceso e intenso oggi sembra lunare, qualcosa che appartiene a una epoca remota e perduta. Con quel mio libro volli fare una cronaca il più fedele possibile degli eventi, ricostruendo l’incalzante susseguirsi delle iniziative, delle prese di posizione, dei conflitti e delle discussioni incandescenti di quei giorni.
L’ho fatto, naturalmente, dal mio punto di vista, quello di chi lottava perché Eluana restasse in vita. Soprattutto ho voluto ricordare che la politica può essere la più alta forma di carità, come recita un adagio attribuito a Papa san Paolo VI (1897-1978), capace di intervenire con coraggio, quando non insegue i calcoli del consenso quotidiano, nascondendosi magari dietro pigri patti funzionali al mantenimento degli assetti di potere.
Giustizia sociale astratta
Non siamo riusciti a salvare Eluana. La politica, nonostante gli sforzi, non è riuscita a restituirle quell’acqua e quel cibo che chissà per quanto tempo ancora le avrebbero consentito di vivere. Ma quella mobilitazione ha lasciato il segno, e il nome della giovane donna non è diventato una bandiera da sventolare, come qualcuno aveva immaginato e progettato, come è avvenuto, per esempio, nel caso di Piergiorgio Welby (1945-2006). Sono state cercate altre parole, altre strade, altri slogan per far entrare in Italia il diritto a morire, e purtroppo negli anni sono stati trovati, complice l’indebolimento di quella stessa politica che era stata capace di risolutezza e protagonismo nella battaglia per Eluana.
Le tappe del percorso sono state molto chiare: innanzitutto si è cercato – con successo – di cancellare un’esperienza che aveva visto laici e cattolici, ex socialisti, ex radicali, ex missini, convergere attorno a una concezione della società modellata su una versione laica del favor vitae, e sulla centralità della persona.
La distanza con chi ritiene che scegliere la morte sia un diritto come un altro, che vivere o morire siano opzioni che hanno lo stesso valore, è abissale. Accettare l’equivalenza tra le due scelte vuol dire spazzare via le basi della fratellanza umana, della solidarietà, della partecipazione. Se tutto si gioca esclusivamente sul principio di autodeterminazione, e quindi su un individualismo in cui ognuno è una monade autosufficiente che decide di sé, senza tenere conto del tessuto di relazioni e reciproche dipendenze in cui è immerso, è evidente che le ragioni profonde della solidarietà non possono sopravvivere. Se scegliere di morire è una decisione come un’altra, che attiene solo alla sfera privata del singolo, e non riguarda gli altri, non c’è motivo per tentare di impedire un suicidio, ma nemmeno per considerare le sofferenze altrui come qualcosa che tocca e coinvolge l’intera comunità e la società. Non resterà che affidarci a un concetto astratto della giustizia sociale, al diritto e alla legge, ma una democrazia che non si fonda su una forte condivisione valoriale è terribilmente fragile.
«Bella addormentata»
Al di là della politica, devo confessare che il mio coinvolgimento nella vicenda Englaro ha le sue radici non solo nei miei più profondi convincimenti, ma anche nella mia esperienza personale. Qualche anno prima, nel 2005, mia madre subì un’operazione e un’anestesia da cui non riemerse. Rimase in stato vegetativo. Non era la prima volta, era già accaduto venti anni prima; allora ne era uscita, sia pure con fatica e infinita pazienza. Stavolta invece sapevo che non c’erano più segni da osservare con ansia, e che dovevo solo starle vicino fino alla fine.
Chi vive accanto a una persona in quella condizione e la accudisce, sa che non si tratta di una persona che non c’è più (senza biografia, ha scritto qualcuno, cioè senza più una storia umana, una vita da raccontare), ma che c’è ancora, c’è tutta intera. È la stessa persona che hai sempre amato, soltanto è immersa in un sonno che la scienza non è in grado di indagare e capire fino in fondo. L’idea di un lungo sonno era anche nel titolo di un film del 2012 di Marco Bellocchio, Bella addormentata, ispirato alla vicenda Englaro. Quel titolo, però, era in totale contraddizione con la tesi pro-eutanasia, che pure l’opera in qualche modo adombrava. La bella addormentata della fiaba, infatti, non deve morire. È lì, nella teca, dove può rimanere ancora tanti e tanti anni, l’importante è che non muoia, e a questo serve l’incantesimo della fata buona. La fata, meno potente della strega cattiva, non è in grado di annullare il maleficio, ma riesce a trasformare la condanna a morte in un lungo sonno. Il sonno non è la morte, e non deve trasformarsi in essa. Il principe, con la spada della verità e lo scudo della giustizia (cito lo storico film della Disney) combatte contro la strega, e il bene trionfa.
Ricordare oggi Eluana, a 12 anni dalla sua morte procurata, spero possa servire a capire quanto sia necessario, per chi ha a cuore la difesa dell’umano, proteggere sempre la vita, e farlo con maggiore forza quando è fragile, scongiurando la china di morte lungo cui l’Occidente sta rotolando.