Last updated on Luglio 8th, 2021 at 05:55 am
La politica demografica della Cina continua a essere una mostruosità.
La premessa è il minuetto delle cifre. Dapprima una squadra di esperti della Banca popolare cinese (中国人民银行) ha realizzato uno studio, datato 26 marzo e reso pubblico il 14 aprile, sostenendo che il colosso asiatico sarebbe sceso sotto la cifra-simbolo di 1,4 miliardi di persone per la prima volta dalla follia socio-economica maoista del «Grande balzo in avanti» (大躍進). Subito dopo, l’11 maggio, l’Ufficio nazionale cinese di statistica (国家统计局) ha reso noti i dati del censimento effettuato nel dicembre 2020 (in ritardo con quanto precedentemente annunciato) e affermato che la popolazione non sarebbe scesa sotto la cifra di 1,4 miliardi: crescerebbe solo più lentamente e quindi il record al ribasso non sarebbe affatto nel numero assoluto dei cittadini cinesi, bensì nel tasso di crescita, il più basso dal 1955.
Un thriller curioso, questo, fra dati e date, visto che sia la Banca popolare cinese sia l’Ufficio nazionale di statistica sono branche dello Stato, e dello Stato non di un Paese a caso, ma della Cina, ovvero uno dei Paesi più centralizzati, controllati e “abbottonati” del pianeta, e che forse molto si deve anche all’effetto psicologico che le cifre rotonde suscitano in un contesto dove il numero è potenza e la potenza sul proscenio internazionale è tutto.
Ma si tratterebbe appunto soltanto di una disfida di numeri se questo thiller non avesse preparato la strada a un evento che peraltro era nell’aria da tempo: dal 31 maggio il governo cinese permette alle coppie di potere mettere al mondo un terzo figlio.
Dal 1979 al 2015, infatti, la Cina ha praticato una rigidissima politica del «figlio unico» ispirata al più crudo criterio neomalthusiano. La fanatica idea di Mao Zedong (1893-1976) di voler spingere rapidamente il Paese, allora essenzialmente agricolo, oltre la produzione industriale occidentale aveva creato una vera tragedia. Secondo i dati ufficiali, la popolazione cinese perse 13,4 milioni di persone, ma lo storico neerlandese Frank Dikötter, in Mao’s Great Famine: The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-62 (Walker, New York 2010), scrive di almeno 45 milioni di morti (documentando persino episodi di cannibalismo compiuti da una popolazione letteralmente allo stremo) e il giornalista cinese Yang Jisheng, in Tombstone: The Untold Story of Mao’s Great Famine (Allen Lane, Londra 2012) afferma che, fra il 1958 e il 1962, 36 milioni di persone sono morte di fame e 40 milioni non sono nate.
Ma neppure questo bastò. Il disastro fu così grande che, al termine della parabola maoista, nel 1976, il Paese si trovava ancora con un “disavanzo umano” tale da spingere il regime a imporre il controllo delle nascite. Inserito nell’articolo 25 dei Princìpi generali della quarta Costituzione della Repubblica popolare cinese (中华人民共和国宪法), adottata nel 1982, la «politica del figlio unico» ha previsto l’aborto forzato dei bambini oltre i primogeniti, la sterilizzazione forzata delle donne, l’abbandono alla morte dei bambini “di troppo” oppure il loro rapimento per la vendita agli stranieri come “orfani”. Un documentario, One Child Nation, lo documenta senza mezze misure. E un video di propaganda, trasmesso dalla televisione cinese nel 1998, sostiene con soddisfazione che in questo modo si è impedita la nascita 338 milioni di bambini.
Ebbene, l’incubo ha avuto una prima battuta di arresto nel 2015, quando il governo ha permesso alle coppie di potere avere un secondo figlio. Ora le condizioni demografiche del Paese sono tali, thriller o non thriller, da spingere a decretare una ulteriore virata.
Ma l’angoscia non diminuisce. Mentre sul sito dell’Ufficio nazionale di statistica restano ancora assenti i dati completi del censimento del dicembre 2020 (da settimane ci sono soltanto i comunicati stampa che ne “anticipano” i dati), e mentre il decreto di liberalizzazione del terzo figlio ancora non è disponibile (sono disponibili soltanto gli annunci sulla stampa di regime, dall’agenzia di stampa Xinhua ai quotidiani in lingua inglese People’s Daily e Global Times, ripresi poi in tutto il mondo), l’importante è non leggere quanto non c’è scritto in alcun luogo e leggere qui quanto purtroppo non viene scritto anche altrove.
La Cina, cioè, non ha messo fine al controllo violento delle nascite. Ha cambiato strategia, proseguendo la strada intrapresa nel 2015.
Si potrà appunto avere un terzo figlio, ma sarà ancora vietato avere quanti figli si desidera e la natura manda. E, dunque, i figli dopo il terzo? Non ci si sbaglia se si dice che faranno la medesima fine dei milioni di bambini ammazzati dopo il primo figlio delle coppie cinesi dal 1979 al 2015 e dopo il secondo figlio dal 2015 a oggi.
Ovviamente: dal 2015 e dal 31 maggio di quest’anno muoiono meno bambini per aborto forzato, ma continuano a morirne. E soprattutto lo Stato continua a decidere cosa fare con la vita delle persone a partire dai loro diritti umani essenziali.
No, la sciagurata politica demografica cinese, che gronda sangue, non è finita. Viene usata, come tutto il resto, alla stregua di un’arma a fisarmonica, a seconda dei fabbisogni dello Stato dalla medesima cricca di potere (non da altri) che ha già sulla pelle milioni di bambini abortiti e di donne sterilizzate.
Nicole King lo ha detto bene, sull’edizione in lingua inglese di «iFamNews»: nulla può cancellare la mattanza di bambini cinesi, che continua. E anche la recente politica del regime tesa a scoraggiare i divorzi fa parte della medesima strategia di uno Stato-padrone che usa delle persone come di pedine su una scacchiera, sacrificando quando serve, facendo quadrato se occorre. Come i Morlock de La macchina del tempo.