Libertà di espressione e «World Wide Web»: un diritto garantito?

Continua l’analisi a livello globale dello stato dell’espressione liberale del pensiero

Image from Pixabay

In questi giorni, e giustamente, gli schermi sono invasi dalla narrazione della guerra che si sta consumando ai confini con l’Europa e che vede su fronti contrapposti Ucraina e Russia. Specialmente il mondo dell’informazione che trova su Internet il proprio palcoscenico virtuale sta coprendo la notizia, come si dice in gergo, 24 ore su 24. Giornalisti e opinionisti che parlano di questo argomento, però, ripetono come un refrain un concetto importante, sarà capitato a tutti di ascoltarlo: «Stiamo verificando», affermano, «stiamo controllando tutte le fonti. Le notizie e le informazioni sul web girano vorticosamente, non è certo siano tutte attendibili, noi cerchiamo di verificare».

E un altro argomento che ritorna, quando gli spettatori o chi commenta nel web chiede cosa pensino i cittadini russi di quanto sta accadendo in Ucraina, è che in Russia, in realtà, si sa ciò che è concesso di sapere, e che l’informazione digital in certi luoghi non è veramente libera.

È interessante, allora, continuare il discorso che «iFamNews» ha già introdotto relativamente alla recessione della libertà di espressione, così come denunciata nel mondo attuale da Jacob Mchangama, autore, fondatore e direttore di «Justitia», un think tank con sede a Copenaghen che si occupa di diritti umani, libertà di parola e Stato di diritto, nel volume Free Speech: A History From Socrates to Social Media, ripreso dal periodico Foreign Affairs che ne ha tratto il saggio The War on Free Speech: Censorship’s Global Rise.

L’esordio che Mchangama fa, parlando di libertà di espressione nel web, è lapidario. «Forse da nessuna parte», afferma, «l’erosione della libertà di parola è stata più evidente che su Internet. Nel 1999, uno dei principali artefici del World Wide Web, Tim Berners-Lee, ha descritto la sua visione di uno spazio decentralizzato libero dalla censura dei “sistemi di classificazione gerarchici” imposti da altri». Nè si ferma qui, l’autore, e anzi aggiunge che «[…] nel 2020, tuttavia, la libertà di Internet è diminuita per l’undicesimo anno consecutivo secondo Freedom House, che ha attribuito la tendenza a una “repressione record della libertà di espressione online“. L’ideale del tecno-ottimista ha lasciato il posto a una rete presidiata in modo aggressivo da Stati e da colossi aziendali che realizzano ciò che alcuni hanno soprannominato “moderazione senza rappresentazione”, utilizzando algoritmi opachi per definire i limiti del dibattito globale con poca trasparenza o responsabilità».

Né il seguito è più rassicurante, se «[…] oltre a diffondere informazioni veritiere e promuovere la tolleranza, una rete libera e aperta accessibile a miliardi di persone in tutto il mondo inevitabilmente diffonde bugie e amplifica la retorica odiosa. Era anche prevedibile che i regimi autoritari, la cui presa sul potere era messa in discussione da Internet, avrebbero investito molto nell’imporre nuovamente il controllo sui mezzi di comunicazione. Nel ventesimo secolo, regimi autoritari e totalitari di ogni genere hanno trasformato la stampa e i media in raffinati strumenti di propaganda, mentre nel frattempo hanno censurato e represso spietatamente il dissenso. Oggi, Stati autoritari, in primis la Cina, stanno decodificando proprio quella tecnologia che avrebbe dovuto rendere impossibile per la censura mettere a tacere il dissenso in patria e seminare divisione e sfiducia all’estero».

Già, la Cina. Al primo posto della sorveglianza digitale grazie a progetti sofisticati come Skynet, Sharp Eyes, Web cleaning soldiers, armi puntate alla tempia di dissidenti, comunità religiose, minoranze etniche come quella degli uiguri musulmani dello Xinjiang, come documenta ormai dal 2018  il portale d’informazione Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights.

Sul fronte dei Paesi democratici, invece, la questione è se vogliamo più filosofica, ma non si sottrae alla logica del gioco di potere.

Vi è infatti, come scrive Jacob Mchangama, «[…] una concezione egualitaria della libertà di parola [che] sottolinea l’importanza di fornire a tutti una voce negli affari pubblici, indipendentemente dallo status o dall’istruzione. Una concezione elitaria, invece, predilige una sfera pubblica mediata da “guardiani” istituzionali che possano assicurare la diffusione “responsabile” dell’informazione e dell’opinione. […] I focolai di panico delle élite spesso riflettono reali preoccupazioni e dilemmi, ma altrettanto spesso sfociano in politiche che rischiano di peggiorare i problemi che intendevano risolvere». 

L’autore si riferisce al Network Enforcement Act (NetzDG), o Facebook Gesetz, entrato in vigore in Germania nel 2017, che impone alle piattaforme social media di rimuovere i contenuti illegali per non rischiare multe onerose e cospicue. Tale normativa, sorta principalmente per controllare ed eliminare le espressioni di odio online, a sfondo per esempio razzista o misogino o discriminatorio o legato all’estremismo religioso, non è risultata particolarmente efficace allo scopo, ma ha incentivato piuttosto le piattaforme big tech a restringere le maglie di ciò che fosse permesso dire, considerando come hate speech ed estremismo anche innocue e assolutamente neutre citazioni di fatti. Il risultato è stato quello di «[…] potenziare la “moderazione automatizzata” dei contenuti, con conseguente cancellazione di enormi quantità di contenuti perfettamente legali».

Di nuovo, Mchangama porta ancora un poco oltre la lettura di tale fenomeno, in relazione alla libertà di espressione, per concludere che «[…] l’impatto più evidente della legge, tuttavia, potrebbe essere stato quello di fungere da modello per la censura di Internet, fornendo una patina di legittimità ai regimi autoritari di tutto il mondo che hanno esplicitamente citato la legge tedesca come ispirazione per le proprie leggi sulla censura. La legge è stata uno sforzo in buona fede per frenare l’incitamento all’odio online, ma ha contribuito a innescare una corsa al ribasso normativa, che mina la libertà di espressione garantita dagli standard internazionali sui diritti umani». 

Il legame con i fatti di cronaca internazionale più recenti diviene evidente all’affermazione secondo la quale «[…] l’importanza della libertà di parola nello spazio digitale è chiara per gli attivisti a favore della democrazia che operano in luoghi come Bielorussia, Egitto, Hong Kong, Myanmar, Russia e Venezuela, dove dipendono dalla capacità di comunicare e organizzare, e dai regimi di questi Paesi, che vedono tali attività come una minaccia esistenziale». 

Non è semplice ipotizzare quale sarà il futuro della libertà di espressione nella società globalizzata e iperconnessa che sta muovendo quelli che sono in fondo i primi passi, considerato che il World Wide Web esiste da circa 30 anni e Google, Facebook e Twitter sono stati fondati rispettivamente nel 1998, 2004 e 2006. Negli ultimi anni, però, tali piattaforme hanno modificato radicalmente i termini di servizio, fino a giungere al divieto di numerosi contenuti e di intere categorie di argomento. «Facebook ha cancellato 26,9 milioni di contenuti per presunta violazione dei suoi standard sull’incitamento all’odio nell’ultimo trimestre del 2020». Erano stati 1,6 milioni nell’ultimo trimestre del 2017.

Quello che pareva essere l’Eldorado sconfinato della libertà e in particolare della libertà di espressione, rischia piuttosto di divenire un cortile estremamente angusto nel quale vince, come sempre, chi riesce a zittire gli altri.

Exit mobile version