Last updated on Luglio 30th, 2020 at 03:59 am
Il tema della procreazione e della riproduzione umane è costantemente foriero di riflessioni. Negli ultimi decenni l’ambito riproduttivo umano si è andato modificando. Quello che un tempo era una esperienza umana unica e irripetibile, che seguiva il ritmo lento della natura e della biologia, ha finito per essere assorbito dalle numerose tecnologie mediche conquistate. La tecnologia riproduttiva, anzi le tecnologie riproduttive, visto che diverse e varie sono le scelte tecno-mediche che una coppia ha oggi di fronte a sé, sono ormai parte dell’azione riproduttiva, sostituendo in diverse occasioni l’atto procreativo umano. Gli uteri artificiali, le diverse tecniche di riproduzione artificiale e la solo reproduction ‒ ossia la riproduzione che usa materiale biologico (sperma e ovociti) provenienti da un’unica persona ‒ sono solo alcuni esempi della diversità e della vastità delle possibilità che hanno finito per sostituirsi e per dettare i tempi e i modi della riproduzione umana.
Come si percepisce anche dall’uso della lingua, che non è mai casuale, l’atto procreativo è quello che si compie tra un uomo e una donna, nell’intimità della propria corporeità, mentre l’atto riproduttivo è quello che, attraverso l’uso della tecnica medica, si inserisce nell’atto di quella coppia, a diversi livelli e con diverse modalità, più o meno invasive e sostitutive dell’atto sessuale e procreativo stesso.
Femminismo tecno-medico
L’uso delle tecniche di riproduzione artificiale (TRA) è diventato a pieno titolo un’alternativa alla procreazione: inizialmente presentate come un aiuto alle coppie in difficoltà per ragioni di infertilità e di sterilità, le TRA sono state per questo anche ammantate di una valenza morale che offre, in modo particolare alle donne, la possibilità di pianificare e di ottenere una gravidanza in piena autonomia.
La tecno-medicina viene infatti presentata spesso come strumento di rivendicazione femminista per l’autonomia e per la libertà delle donne. Una donna può decidere quando pianificare una gravidanza e come ottenerla, può bypassare la condizione di sterilità (maschile o femminile), può monitorare sia la fase preconcezionale sia quella prenatale attraverso le varie tecniche di diagnosi genetica, può scegliere di selezionare e di impiantare quell’embrione che rispetta le aspettative di salute clinica desiderate e scartare quelli difettosi se si sottopone alle tecniche di fecondazione artificiale, e può addirittura pianificare il momento del parto attraverso l’opzione del cesareo al posto di quello vaginale, anche in gravidanze fisiologiche, non a rischio.
Tra le conseguenze di questo diffuso uso delle TRA emerge prepotentemente quello che Sylvia Burrow, della Cape Breton Univeristy di Sydney, in Canada, chiama «imperativo tecnologico». Vale a dire medici e donne prossime al parto che sentono «come imprescindibile l’uso costante della tecnologia, non sentendosi a proprio agio nel rifiutarla senza alcuna ragione». Alle donne che si affacciano a una gravidanza viene offerto un insieme di test, monitoraggi e analisi a cui molto raramente la donna riesce a sottrarsi. La pressione medica e sociale è fortissima: da un lato i medici spingono la donna a farne uso anche per attuare quella che in gergo viene chiamata una «medicina difensiva», una medicina, cioè, che difende il dottore da eventuali ripercussioni medico-legali che in ambito prenatale sono abbastanza diffuse; dall’altro lato le pressioni sociali, che la spingono a usufruire di qualsiasi tecnica disponibile, facendole credere di essere più sicura nel raggiungimento dell’obiettivo, in questo caso ottenere il bambino desiderato garantendo la qualità sanitaria del nascituro e della gestante.
La sindrome della pianificazione
Ma è proprio vero che avere a diposizione un numero maggiore di TRA, in particolare sulla riproduzione, renda noi donne realmente più libere? Le donne esercitano davvero la propria autonomia nel momento in cui scelgono come e quando rimanere incinte, progettando la propria gravidanza e il parto?
La tecnologia offre, almeno apparentemente, l’idea di poter pianificare il concepimento e la gravidanza, in particolare il parto, nel modo e nei tempi che più rispettano il percorso autobiografico, sociale, lavorativo ed economico della donna. Il solo fatto di non essere più “in balìa della natura” fa credere di potere controllare ogni aspetto della vita, anche quello più naturale e intimo della gravidanza. Il senso di sicurezza che la scienza e la tecnica alimentano nel subconscio portano a scegliere a volte opzioni che non rappresentano nemmeno necessariamente la scelta più sicura.
Lo spiega bene Marian F. MacDorman, specialista che opera nei Centers for Disease Control and Prevention, di Hyattsville, nel Maryland, quando indica un tasso di mortalità fetale di 2,4 volte più alto nei parti cesarei senza complicazioni rispetto ai parti vaginali. Esiste, infatti, una diffusa percezione secondo cui il parto cesareo sarebbe meno rischioso di quello vaginale, mentre invece le statistiche e gli studi condotti sul lungo periodo evidenziano esattamente il contrario. Secondo alcuni studi, inoltre, almeno il 20% dei cesarei sarebbe non necessario da un punto di vista clinico. Pensare una tecnica come routinaria della pratica clinica, porta di conseguenza a pensare che essa sia anche più sicura e meno rischiosa.
Per esempio proprio la scelta del parto cesareo, anche quando non necessario, è intrapresa dalle donne sia per evitare possibili fastidi durante e dopo il parto, relativamente a dolore, stress fetale, disfunzioni sessuali future e incontinenza ‒ rischi che però tendono appunto a essere sovrarappresentati ‒, ma anche per rispondere a esigenze di tipo lavorativo e sociale, che chiedono una gestante sempre più attiva fino all’ultimo e dopo ultra-performante. Noi donne abbiamo del resto pagato pesantemente la nostra entrata nel mondo del lavoro: molte di noi si sono affacciate alla prima gravidanza a un’età biografica avanzata, con un tasso di fertilità che diminuisce gradualmente già a partire dai 32 anni per poi scendere vertiginosamente dopo i 35.
Ingranaggi di un meccanismo oliato e produttivo
Ora, la questione dell’autonomia della donna in campo riproduttivo non è certamente nuova nel dibattito moderno, ma con la diffusione delle TRA è diventata centrale. Ci si deve adesso chiedere se il solo fatto di avere tante opzioni a disposizione renda automaticamente liberi di scegliere ciò che è meglio o se invece la tecnica sia in questo caso un ulteriore laccio per la donna che si sente spinta a usufruirne. Chi rifiuta la stressante batteria di test preconcezionali e prenatali subisce la pressione di aver messo a rischio la salute del feto, che potrebbe quindi nascere malato e divenire successivamente un costo sociale per l’intera comunità.
Si aggiunge poi un’ulteriore riflessione: le TRA rispondono solamente a una esigenza medico-clinica oppure rientrano in gran parte nel contesto della cosiddetta «medicina del desiderio»? Le TRA sono trattamenti terapeutici specifici per un problema diagnosticato di tipo clinico oppure molte di queste tecniche sono nate solo per soddisfare i bisogni secondari e i desideri di vita di una coppia?
È molto importante stabilire se un trattamento, di qualunque natura sia, risponda anzitutto a una necessità clinica. In un contesto, come quello odierno, in cui le società moderne occidentali, con un sistema sanitario di stampo assistenzialista, si muovono sempre più nel contesto di una scarsità di risorse, è prioritario focalizzare se e in che misura un trattamento abbia o meno finalità cliniche. L’imperativo tecnologico ha infatti finito per stringere le donne in una morsa che le ha rese apparentemente più autonome, ma che in realtà le costringe, come mai prima d’ora, a essere un componente funzionale in un ingranaggio sociale oliato e produttivo. Ricuperare il tempo del nostro corpo e della nostra natura, ricuperare la nostra femminilità: questo è l’imperativo vero.