Le paritarie fanno bene all’Italia. Di’ loro di continuare

Se a settembre “solo” un terzo delle paritarie non dovesse riaprire i battenti lo Stato dovrebbe erogare 1,6 miliardi all’anno in più. Un buono scuola costerebbe esattamente la metà

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Last updated on Maggio 26th, 2020 at 04:00 am

Fra le vittime del coronavirus e della crisi economica che verrà, una, oramai è notizia nota, è particolarmente silente: la scuola paritaria. Secondo stime riguardanti il prossimo anno scolastico, circa un terzo degli istituti non statali potrebbe non riaprire i battenti. Sono previsioni citate da suor Anna Monia Alfieri e da Carlo Amenta nello studio Una scuola per tutti, pubblicato dal think tank Istituto Bruno Leoni.

Un argomento tipico di tutte le categorie imprenditoriali, professionali e sociali, in vista della crisi, è chiedere più fondi pubblici per il proprio settore, considerandolo indispensabile per la società. Ciò che chiedono i (pochi) difensori delle scuole paritarie è invece molto differente. I difensori della libertà di istruzione, infatti, non chiedono soldi per se stessi, ma per le famiglie degli allievi: dare un buono scuola alle famiglie e permettere loro di scegliere più liberamente in quale scuola mandare i figli. Inoltre l’aumento relativo della spesa pubblica, che il buono scuola comporterebbe, è molto inferiore alla spesa che vi sarebbe, inevitabilmente, se tutti gli allievi delle scuole paritarie si dovessero trasferire nella scuola pubblica. Perché questo è ciò che accadrebbe, se le paritarie dovessero chiudere i battenti. Gli studenti delle scuole non statali sono quasi 867mila, di tutte le età. Se un terzo delle scuole in cui studiano dovesse chiudere, rimarrebbero a spasso circa 290mila studenti.

Secondo i conti della Alfieri e di Amenta, l’aumento di spesa pubblica che lo Stato dovrebbe erogare in caso di iscrizione di tutti gli allievi delle paritarie nelle scuole di Stato sarebbe pari a 5 miliardi all’anno. Poniamo che a settembre “solo” un terzo delle paritarie non dovesse riaprire i battenti, in tal caso lo Stato dovrebbe erogare 1,6 miliardi all’anno in più. Un buono scuola costerebbe esattamente la metà. Anche se dovesse essere erogato a tutte le famiglie degli attuali iscritti alle paritarie (per circa 867mila studenti) comporterebbe una spesa massima di 2,4 miliardi all’anno, la metà di quel che si dovrebbe spendere per iscrivere tutti quegli allievi nelle scuole statali. Giusto per dare il senso delle proporzioni, uno studente della scuola di Stato costa al contribuente, in media, 6.006 euro all’anno (stima del ministero dell’Istruzione Università e Ricerca). Uno studente delle paritarie costa al contribuente, in media, 752 euro (stima di Alfieri e Amenta), mentre il resto del costo dell’istruzione è sostenuto dalla famiglia dell’allievo. Da non dimenticare che le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte: la prima volta con le tasse (per un servizio di cui non usufruiscono) e la seconda volta con la retta da pagare alla scuola paritaria. Con l’introduzione di un buono scuola, non si farebbe altro che restituire una parte delle tasse pagate dalle famiglie che non usufruiscono del servizio delle scuole di Stato.

Briciole, o poco più

Qual è stata la risposta del governo? Nulla o quasi. Nel cosiddetto «Decreto Rilancio» sono stanziati 80 milioni di euro a sostegno delle famiglie che hanno mandato i figli nelle scuole paritarie materne. Nulla è previsto per tutti i successivi livelli di istruzione, dalle elementari in su. L’aggiunta di 70 milioni per un totale di 150 non sposta di molto la questione.

Cosa ci si deve dunque aspettare? Da un punto di vista meramente economico, di pagare molto di più, poiché, se veramente un terzo delle paritarie dovesse chiudere, si avrebbe un esborso molto maggiore per trasferire alla scuola statale tutti gli studenti rimasti senza né aule né professori. Secondo: si avrebbero circa 60mila disoccupati in più, ovvero un terzo dei 180mila dipendenti delle scuole non statali. Un numero di posti di lavoro bruciati, questo, che non verrà certo colmato dall’assunzione di 16mila insegnanti nella scuola pubblica annunciata dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, come misura per rilanciare la scuola. Infine, ma non da ultimo, si godrebbe tutti di meno libertà di scelta.

Al di là dell’aspetto meramente economico, la scuola paritaria non solo consente un risparmio, ma soprattutto permette di mantenere l’ordine naturale dell’educazione, basato sul principio di sussidiarietà. A chi appartiene l’onore e l’onere di educare? Allo Stato o alla famiglia? La nostra stessa Costituzione, all’Art. 30, afferma che tocchi alla famiglia: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio». Quel che spesso si dimentica è che il centro dell’istruzione pubblica italiana è sempre la famiglia, non la scuola statale, che subentra solo in seconda istanza, come supporto. I nemici della paritaria citano l’Art. 33, terzo comma, della legge fondamentale: «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato» e citano solo quel «senza oneri per lo Stato»per opporsi a ogni progetto di buono scuola. Però c’è una bella differenza fra l’aiutare direttamente una scuola pubblica non statale e l’aiutare una famiglia a scegliere liberamente la migliore educazione per il figlio. Una differenza che stentano a vedere.

La malattia della scuola è il monopolio statale

Riducendo l’offerta dell’istruzione al solo apparato statale si riduce enormemente la libertà di scelta delle famiglie. E questo è un danno per tutti, sia per le scuole sia per le famiglie. Il pluralismo favorisce invece la competizione e la ricerca della qualità, come scrivevano nel 2018 i professori Dario Antiseri e Flavio Felice in una lettera aperta a tutti i partiti: «Nessuna scuola sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, una segreteria più operosa, una biblioteca ben fornita, un laboratorio ben attrezzato, insegnanti più preparati, ecc. bastano a fare la differenza. Me se nessuna scuola sarà mai uguale all’altra, non sarà allora che tutte potranno migliorarsi attraverso la competizione? In breve, non esistono forse buone ragioni per affermare che è tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di migliorare il nostro sistema formativo: la scuola statale e quella non statale?». Nella lettera citata i due autori individuavano nel monopolio statale la vera malattia dell’istruzione pubblica: «Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola. E favorisce l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non pochi genitori». Ecco, noi stiamo andando dritti verso questo secondo scenario.

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