Il mondo che NON vogliamo, malgrado il coronavirus

Il documento della SIAARTI, i dubbi, i timori. Facciamo il punto. Per parlare con chiarezza

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«Come utilizzare le risorse disponibili, quando non bastano più per tutti i malati?». Asciutta, dritta al punto, è la domanda che si pone su Avvenire Assuntina Morresi, docente di Chimica Fisica nell’Università degli Studi di Perugia.

Il punto centrale della pandemia del coronavirus in Italia, infatti, a fronte di molte malattie ad alto tasso di contagiosità, è che non esiste ancora una cura e che dunque, se il contagio si diffonde, le strutture sanitarie si intasino, saturando i posti disponibili in terapia intensiva e preludendo al collasso. Per la casalinga di Voghera: non è che in una banca solida non ci siano denari, ma anche la banca più solida crolla se tutti i correntisti decidessero di ritirare i propri risparmi nello stesso momento.

Siamo costretti in casa per questo. Quando sarà passata la tempesta bisognerà pur ragionare seriamente sul perché il nostro sistema sanitario disponga di un numero di posti-letto in terapia intensiva decisamente insufficiente sia in termini assoluti sia in termini relativi alla popolazione, costantemente sotto la media europea, e sui tagli sbagliati alla Sanità che evidentemente sono stati operati negli anni scorsi (i tagli alla Sanità sono doverosi per evitare sprechi, ma vanno fatti bene). Al netto di ciò, però, adesso quel che urge è capire cosa fare con la coperta di Procuste con cui medici e paramedici italiani sono costretti a combattere quotidianamente.

Vivere o morire?

Si evoca lo scenario della “medicina di guerra”. Il rischio è però quello di stemperare tutto nel romanticismo. Io torno allora nei panni della casalinga di Voghera. Che fa un medico quando ha davanti due malati e una sola siringa? Sceglie. Evito di inoltrarmi nella casistica e nella casuistica che si spalanca a questo punto al ventaglio delle possibilità etiche perché mi porterebbe fuori strada. Resto invece a ciò che c’è. Ciò che c’è ora sono i malati e il documento diffuso il 6 marzo dalla Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI), intitolato Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, che parte dalla constatazione dell’“enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive”. Probabilmente tutti, chi più chi meno, ne hanno sentito parlare. Introduce l’idea di fissare criteri su chi curare e chi no qualora le cure non fossero disponibili per tutti, ovvero se i posti-letto in terapia intensiva che all’Italia mancano non bastassero per tutti i contagiati.

È qui che insorge, dice la Morresi, «[…] la preoccupazione verso i più fragili, cioè gli anziani e le persone già malate e disabili», che «[…] è passata troppo spesso in secondo piano, privilegiando il desiderio di mantenere il proprio stile di vita. D’altra parte anche il diffondersi di leggi e modi di pensare che mettono sullo stesso piano la scelta di vivere e quella di morire, contribuisce a indebolire quella solidarietà profonda verso chi è più vulnerabile».

Il nodo, qui, è la «[…] scelta dei pazienti più bisognosi di cure», il ben noto triage attraverso cui in ogni Pronto Soccorso vengono distribuiti i pazienti. Ora, ciò che vale «[…] in tempo normale, continua a valere nelle condizioni di emergenza», anche se tutto «[…] va dilatato, adattato all’urgenza e alle difficoltà del momento». Insomma, «vanno stabilite delle priorità, e la prima, evidente priorità è curare chi c’è, chi al momento ha bisogno di trattamenti».

Sottolineo: la priorità evidente è curare chi c’è. La realtà detta la legge.

Raccomandazioni. Cioè?

Immaginiamo cosa succederebbe se invece che la realtà fosse l’intenzione, o il desiderio, a stabilire il criterio. Di fronte a un malato che c’è si potrebbe voler non intervenire per tenere il posto ad altri, presumendo un criterio di fitness maggiore. Che però è sempre teorico. L’età, per esempio, non è un criterio valido. Crediamo tutti di sapere che un ottuagenario sia più in salute di un cinquantenne, ma è un processo alle intenzioni. Può essere clamorosamente falso, e molto spesso lo è fattualmente. Correggeremmo allora il criterio dell’età con l’aspettativa di vita? Diremo cioè a un vecchio più in salute di un uomo di mezza età che non ha diritto alle cure perché, in teoria, gli spettano meno anni di vita? Sottolineo ancora in teoria. Non dimentichiamo, infatti, che la scienza medica è tutta empirica, come lo sono la stragrande maggioranza delle cose di cui si occupa l’uomo, e fra esse tutte le scienze. Quindi l’aspettativa di vita è una statistica, utile, ma non di sola statistica vive l’uomo.

Una nota del Centro Studi Rosario Livatino (CSL) ricorda che «se la situazione è eccezionale, in quanto tale essa non può essere oggetto di regole di carattere generale e astratto, se pure nella forma delle “raccomandazioni”. Un documento che abbia caratteristiche generali è logicamente incompatibile con quello stato di emergenza che sfugge alle catalogazioni. Se i motivi dell’emanazione delle raccomandazioni sono comprensibili (tutelare i medici da ingiuste aggressioni), tuttavia esse presentano il rischio di togliere al medico il diritto-dovere di provvedere, nel caso concreto, alla scelta giusta, in quanto appropriata alla situazione clinica che egli si trova a fronteggiare».

Quindi, «riesce difficile definire la portata delle “raccomandazioni”: costituiscono un’appendice nuova al codice deontologico? potranno essere invocate come scriminante? che cosa accade per chi se ne discosti?».

Il codice deontologico

Torniamo a Voghera, e alla sua casalinga chiusa in cucina a ripensare alla siringa per due. Il CSL dice: «Volendo essere ancora più espliciti, non stiamo parlando di impartire disposizioni nel caso di presenza contestuale di più pazienti: in tal caso ad impossibilia nemo tenetur, ed è chiaro che il medico dovrà fare valutazioni che tengano conto del quadro clinico complessivo, cioè, unitamente alle altre circostanze, anche dell’età del paziente, che incide sulle prospettive complessive di guarigione. Si tratta invece di evitare il preventivo abbandono in attesa di pazienti più meritevoli: se le “raccomandazioni” fossero intese in questa direzione, alla fine il giudizio etico diventerebbe superfluo, introducendo una sorta di automatismo, invece del necessario esame della situazione concreta che il medico ha davanti. Se arriva in reparto una persona che può essere curata e salvata, nessuna “raccomandazione” può dissuadere dal curarla sulla base della previsione che altri potrebbero avere bisogno a breve della terapia intensiva. Il criterio non può essere solo quello della priorità temporale: non possono esserci criteri diversi dalla appropriatezza clinica, considerata sotto l’aspetto della ragionevole speranza di guarigione. Ogni altro criterio apre le porte a una discrezionalità che sfocia nell’arbitrio sanitario».

La paura è eccessiva, perché il documento della SIAARTI non prevede queste derive? E chi lo sa? La Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO) risponde evocando il codice deontologico medico, ma il CSL ricorda che la stessa FNOMCeO «[…] appena un mese fa aveva subordinato» il codice deontologico medico «[…] all’acritico recepimento della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale» che consente il suicidio assistito. Non a caso il Movimento la Vita è fortemente preoccupato.

Neanche all’amatriciana

La Morresi parla ancora per noi. «Quale medico», scrive, «[…] ha mai negato un trattamento necessario a un paziente che ha davanti, per riservarlo per uno sconosciuto successivo, ipotizzando che sia più adeguato? E se di malati ne arrivano tanti contemporaneamente, l’appropriatezza clinica significa individuare la ragionevole speranza di guarigione per ciascuno, considerandone l’intero quadro clinico con tutti i fattori che lo costituiscono, fra cui c’è anche l’età del paziente, ma non come criterio principale e non certo intesa in senso statistico, cioè come numerosità di anni di vita trascorsa (o attesa), per individuare una soglia di accesso alle cure, quanto piuttosto come uno degli elementi di valutazione della ragionevole possibilità di guarigione. Individuare criteri di esclusione di persone dai trattamenti sanitari solo in base a considerazioni probabilistiche, per esempio solo in base all’età, significherebbe escludere ogni forma di solidarietà verso i più vulnerabili, aprendo la porta a disastri ancora più pesanti di quello da cui speriamo di uscire al più presto».

Un articolo, questo, pieno di ripetizioni, tutte assolutamente volute, affinché il concetto sia chiaro e sostenuto da autorità diverse.

L’ora è delicata, sfoggiare la retorica per farsi belli ruggendo dietro la tastiera è da gaglioffi. Strillare paroloni dai toni apocalittici è pusillanime, benché sport assai praticato. A “iFamNews” basta dire forte e chiaro che di riedizioni del Terzo Reich non ne vogliamo, nemmeno all’amatriciana.

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