Il mito della “bomba P” persiste, ma è sempre un falso

Uno studio di un analista ONU ripropone ipotesi sbugiardate, contraddicendosi. Il vero problema è l’inverno demografico

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Last updated on marzo 18th, 2020 at 03:33 pm

Yale Global Online, sito di notizie e di analisi dal mondo prodotto dall’Università Yale, ha pubblicato il rapporto World Population: 2020 Overview («Popolazione mondiale: panoramica del 2020») dedicato alle tendenze della crescita demografica mondiale. Il documento, oltre che a fotografare una situazione, dovrebbe servire anche come guida all’azione per chiunque partecipi al processo decisionale: «Capire le tendenze demografiche globali è essenziale per chi nei governi e nelle aziende abbia ruoli di progettazione» si legge nel cappello introduttivo. Non è dunque solo un lavoro descrittivo, ma anche prescrittivo.

Prima di tutto, i numeri di base: la popolazione mondiale conta attualmente 7,8 miliardi di persone. Ha raggiunto il traguardo importante dei 7 miliardi nel 2011. I demografi citati nel saggio prevedono una crescita fino a 8 miliardi entro il 2023, di 9 miliardi entro il 2037 e di 10 entro il 2056. Si sta dunque parlando di una popolazione in crescita, con un ritmo leggermente più rapido rispetto alle previsioni del 2012 (quando si contava di raggiungere gli 8 miliardi entro il 2025), ma comunque destinato a calare gradualmente. Il tasso di crescita demografica mondiale è attualmente all’1% (annuo), meno della metà di quello del 1968 (2,1%). La previsione è che si dimezzi ancora entro la metà del secolo.

I casi di studio più interessanti, in questa panoramica, riguardano i Paesi che stanno entrando «nel territorio ignoto del declino demografico e dell’invecchiamento della popolazione». Sono almeno 20, tutti concentrati nel mondo industrializzato, fra cui l’Italia (assieme a Giappone, Grecia, Polonia, Spagna e Ungheria). Per i prossimi anni è previsto un declino, già individuabile, anche in Cina, Corea del Sud, Germania e Russia. Il fenomeno del declino demografico, oltre che “ignoto” è considerato preoccupante, o quantomeno portatore di sfide: «Data la bassa fertilità e la maggiore longevità, l’invecchiamento della popolazione costituisce la sfida del secolo XXI». Tuttavia, senza timore di cadere in contraddizione, al paragrafo precedente dello stesso studio si legge: «Un altro sviluppo positivo [oltre all’aumento della longevità]: la riduzione del tasso di fertilità. Stante che le donne e gli uomini stanno acquisendo controllo sul numero e sulla distribuzione delle nascite nel tempo, la fertilità è globalmente diminuita in maniera sensibile da una media di cinque nascite per donna del 1950 a una di 2,5 oggi».

Malthus redivivo

Allora il minore tasso di fertilità è uno sviluppo positivo, anzi addirittura benvenuto («a welcome change») oppure è una sfida? Delle due, infatti, l’una. Minore sarà il tasso di fertilità, maggiore sarà la difficoltà posta dalla sfida dell’invecchiamento della popolazione. L’autore del rapporto pubblicato da Yale Global Online è Joseph Chamie, direttore della Divisione Popolazione nel Dipartimento Affari economico-sociali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite dal 1994 al 2004, che si muove all’interno di un paradigma scientifico molto ben identificabile. Proprio nel 1994 la Conferenza Internazionale dell’ONU sulla Popolazione e lo Sviluppo promuoveva un Programma di azione su queste linee: «Gli sforzi per rallentare la crescita della popolazione, ridurre la povertà, conseguire il progresso economico, incrementare la protezione dell’ambiente e ridurre le tendenze alla produzione e al consumo insostenibili si supportano reciprocamente. Una crescita economica sostenuta nel quadro dello sviluppo sostenibile è essenziale per sradicare la povertà. Sradicare la povertà contribuirà a rallentare la crescita della popolazione e a raggiungere prima una stabilizzazione della popolazione. Le donne sono generalmente le più povere fra i poveri. Sono anche gli attori chiave del processo dello sviluppo. Eliminare tutte le forme di discriminazione delle donne è dunque il prerequisito per eliminare la povertà, promuovere una crescita economica robusta, nonché assicurare una pianificazione familiare di qualità e i servizi per la salute riproduttiva [fra cui l’aborto] e conseguire un equilibrio fra popolazione e risorse disponibili» (il corsivo è nostro). Questo si legge già nella prefazione del Programma d’azione. Come si vede, le parole d’ordine di allora sono ancora quelle usate universalmente oggi: «sviluppo sostenibile», «pianificazione familiare» e «diritto alla salute riproduttiva». Qual è il punto chiave? L’equilibrio fra popolazione e risorse disponibili.

Questa visione della realtà si basa ancora sulla concezione dell’economista britannico Thomas Robert Malthus (1766-1834) e soprattutto della sua opera principale, il Saggio sul principio di popolazione (1798) dove viene teorizzato che, se i mezzi di sostentamento crescono in progressione aritmetica, la popolazione aumenta in progressione geometrica. Si arriverà, dunque, al punto in cui vi saranno troppo poche risorse per sostenere la popolazione. La teoria dello «sviluppo sostenibile» è quindi intrinsecamente malthusiana, perché considera le risorse, se non statiche, almeno destinate ad aumentare più lentamente rispetto ai suoi potenziali utilizzatori.

Questa ipotesi è stata però clamorosamente confutata dalla storia. Nel 1800 la popolazione mondiale ammontava a 1 miliardo di persone. Nel 2020, come attesta lo stesso studio da cui si è partiti, la popolazione è di 7,8 miliardi di persone, quasi otto volte tanto il totale degli abitanti del mondo conosciuto da Malthus. Ma i mezzi di sostentamento non sono solo più abbondanti oggi rispetto al 1800, sono pure meglio distribuiti. Lo prova lo stesso World Population 2020: «Uno sviluppo positivo del cambiamento demografico è l’incremento della longevità. Negli ultimi sette decenni l’aspettativa di vita alla nascita, nel mondo, è aumentata di 28 anni, da 45 a 73, e ha raggiunto il picco superiore agli 80 anni in molti Paesi sviluppati, con un numero crescente di centenari. Diminuzioni notevoli nella mortalità infantile hanno fatto sì che, fin dal 1950, il suo tasso si riducesse dell’80%, da 140 a 29 morti ogni 1000 nati vivi». Dunque: nessun peggioramento della qualità della vita.

Più gente, più possibilità

Cosa dimostrano questi numeri? Che le risorse né sono statiche né crescono più lentamente rispetto alla popolazione. Il segreto dell’aumento delle risorse è: saperle usare e inventarle. Due azioni che dipendono interamente dall’uomo e dal suo ingegno. Paradossalmente, l’esistenza di un numero maggiore di uomini aumenta la possibilità di incrementare le risorse: più cervelli, dunque più probabilità che qualcuno scopra nuove tecniche agricole, come la «rivoluzione verde» lanciata dall’agronomo statunitense Norman Borlaug (1914-2009). O che qualcuno scopra che una materia, inutile in natura, possa diventare una preziosa fonte di sostentamento dell’uomo, come è avvenuto, nei secoli, con il carbone, con il petrolio, con il silicio, con tante altre materie trasformate in risorse.

Tuttavia il paradigma malthusiano è duro a morire. Anche in tempi molto più recenti, libri di successo come The Population Bomb, pubblicato nel 1968 dall’ambientalista e biologo statunitense Paul R. Ehrlich, hanno contribuito a rilanciare l’allarme della sovrappopolazione in termini puramente malthusiani. Come commentava ironicamente l’economista inglese Colin Clark (1905-1989), ribattendo alla FAO, l’agenzia dell’ONU per l’Agricoltura e il Cibo: «Non dovrebbe più esserci molta gente oggi a credere ancora a quell’errore madornale, compiuto originariamente nel 1950 e diffusosi tanto rapidamente nel mondo, secondo il quale “una vita di malnutrizione e di povertà effettiva è la sorte di almeno due terzi del genere umano”; perché un’affermazione così, così palesemente errata, abbia avuto una così ampia diffusione è un problema di psicologia sociale», scriveva l’esperto in Population Growth and Land Use del 1967. Quello di Malthus è un paradigma da cui si stenta a uscire. E dunque si stenta a capire che il vero problema del futuro, che solo ora si inizia a riconoscere come tale, sarà l’inverno demografico, non la “bomba”.

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