Last updated on Dicembre 20th, 2020 at 04:17 am
Sul non invidiabile podio dei morti su un milione d’abitanti per CoViD-19 nel mondo, l’Italia occupa il terzo gradino. Dopo Belgio e Perù, infatti, è il nostro Paese ad aver dovuto piangere più lutti in rapporto alla popolazione (1.036 ogni milione). Se si considera che il governo italiano ha adottato politiche tra le più restrittive per tentare di contenere i contagi, il dato fa riflettere. È così che il professor Alessandro Ricci, docente nell’Università Tor Vergata di Roma e tra i coordinatori del sito Geopolitica.info, ha svolto una ricerca analitica per comprendere se davvero il lockdown rappresenti la risposta più efficace al diffondersi del nuovo coronavirus. Ricci ha comparato i dati su contagi e decessi di Paesi che hanno messo in campo politiche eterogenee di contrasto al CoViD-19, rilevando che forse il confinamento è tutt’altro che il miglior rimedio alla pandemia.
Professore, cosa dimostra il suo studio?
L’analisi comparativa sulle misure adottate fa emergere un quadro contro-intuitivo sugli effetti di carattere politico, sociale ed economico, nonché sui dati dei contagi e dei morti. Mi spiego: alle misure restrittive non corrisponde un risultato soddisfacente. Eppure sono mesi che sentiamo parlare in modo incessante della necessità di lockdown, di chiudersi in casa quasi fosse l’unica soluzione gestionale efficace. Così non è: quei Paesi che hanno imposto meno restrizioni hanno avuto risultati sorprendenti sia sui dati dei contagi sia su quelli dei morti.
Ci sono elementi sufficienti per ritenere che questi risultati siano stati merito delle sole politiche meno restrittive?
Questi risultati vanno letti con diverse chiavi, è ovvio. Tra i fattori che la mia analisi non considera, ci sono questioni relative a welfare, disponibilità di posti letto ed età media. Ma comunque, anche considerando questi singoli fattori in un’analisi comparativa, i conti non tornano.
La sua analisi coinvolge anche la Svezia, ritenuta modello di politiche blande eppure efficaci. Va però considerata una densità abitativa del Paese scandinavo inferiore rispetto alla nostra…
È vero che la Svezia ha una densità abitativa nazionale inferiore a quella italiana, però una città come Stoccolma ha una densità abitativa che si avvicina a quella delle grandi città italiane. Ma la Svezia non è l’unico caso di politiche blande. Penso al Giappone, dove non c’è mai stato un lockdown, bensì sono state date minime indicazioni di buonsenso quali lavaggio delle mani e il distanziamento fisico. Ebbene, il Giappone ha una densità abitativa nazionale ben più alta di quella italiana.
I media hanno diffuso nei giorni scorsi la notizia che in Svezia le terapie intensive sarebbero al collasso. Vacilla il modello svedese?
Si deve analizzare bene il dato e andare oltre i titoli allarmistici: anzitutto si parla di un intasamento che riguarda la sola regione di Stoccolma, mentre il resto del Paese ha un’occupazione normale dei posti letto in terapia intensiva, senza alcun «collasso» come evidenziato semplicisticamente da molti giornali. Dei posti occupati nella regione, solo il 55% sono per pazienti Covid (89 su 160). I numeri dei contagi e dei decessi in Svezia restano comunque bassi rispetto alla popolazione (circa 250 pazienti Covid gravi, pari allo 0,1% del totale dei positivi). Quanto fatto dal Paese (raddoppio dei posti di terapia intensiva all’inizio della epidemia) e i dati analizzati dimostrano che è un problema anzitutto di gestione ospedaliera, non di privazioni delle libertà. Qui in Italia sarebbe stato opportuno rafforzare la sanità piuttosto che confinare le persone a casa. A tal proposito mi preme citare un dato.
Prego…
Uno studio dell’Università di Edimburgo ha dimostrato che, nei contesti occidentali, il lockdown limiterebbe i contagi soltanto del 3%. Questo perché in Occidente i cittadini non vengono isolati veramente, dunque una simile politica risulta inefficace dal punto di vista sanitario e, aggiungo io, straordinariamente dannosa per questioni economiche, sociali, psicologiche, educative, scolastiche.
Questa pandemia ha anche sfumature geopolitiche?
Certo. Non pensiamo che sia una questione relegabile al solo ambito sanitario. L’analisi geopolitica e l’ottica globale aiuterebbero a comprendere assai meglio il fenomeno e ad attuare scelte ben più efficaci. L’Italia ha adottato la politica del lockdown perché ha subito ritenuto il modello cinese di gestione del virus l’unico possibile. Si sono così trascurati gli esempi di Giappone, Corea del Sud e Taiwan, che sono riusciti a contenere il male senza mai minare la libertà delle persone. Abbiamo dunque rifiutato modelli che più si avvicinavano all’idea occidentale di democrazia e abbiamo invece fatto nostro il modello di un regime che soffoca le libertà personali come quello cinese. Per altro, non va dimenticato che le notizie provenienti dalla Cina sono attendibili fino a un certo punto.
Da esperto di geopolitica come spiega l’adozione del modello cinese da parte dell’Italia?
È facilmente spiegabile con i recenti accordi che il governo ha stipulato con Pechino. È la testimonianza di un pericoloso spostamento del baricentro geopolitico dall’Alleanza atlantica al regime autoritario cinese. Questa decisione ha smentito secoli di storia: un grande storico del Novecento, Federico Chabod (1901-1960), mette in luce come il concetto di Europa si fondi sull’idea di libertà. Quando sento dire che la Cina avrebbe sconfitto il CoViD-19 perché è un regime, rispondo che forse è vero, ma che comunque vanno considerati i gravi danni collaterali delle politiche restrittive, soprattutto nei nostri contesti.
Prima ha citato Taiwan e Corea del Sud. Le loro politiche sono state efficaci grazie al tracciamento. Qui in Italia la maggioranza ha rifiutato l’app Immuni considerandola uno strumento di violazione della privacy…
Lì l’azione di tracciamento è stata efficace perché – è vero – condivisa dalla popolazione, ma soprattutto perché immediata. In Italia si sono avuti ritardi enormi e l’app ha fatto registrare diversi difetti di funzionamento. E aggiungo che la ritrosia degli italiani nei confronti di Immuni si spiega anche con un disagio dovuto alla ridda di limitazioni che già avevano subito. Limitazioni che, tengo a sottolinearlo, hanno riguardato anche il diritto all’istruzione: le scuole italiane hanno avuto le chiusure più lunghe, provocando così enormi danni e sotto molteplici punti di vista.
Lei è docente. Ha avuto modo di tastare con mano questi danni?
Certo. La didattica a distanza ha causato grossa frustrazione negli studenti, sia per quanto riguarda le maggiori difficoltà di apprendimento sia per ciò che comporta in termini di mancate relazioni sociali. I luoghi fisici rivestono un’importanza enorme nella nostra esistenza: se releghiamo la vita alle quattro mura domestiche e allo schermo viene meno il portato delle esperienze che si svolgono andando in giro, incontrando persone, confrontandosi con la realtà. La scuola dimostra poi che le segregazioni acuiscono le disparità sociali: un conto è uno studente che ha una casa grande, con un proprio pc e la banda larga; altro conto uno studente che condivide limitati spazi casalinghi con altre persone, non ha un computer personale e nemmeno la banda larga. Per non parlare della minata capacità di formare una coscienza critica, derivante anzitutto dal confronto e dalla relazione umana e oggi quanto mai urgente.