Last updated on aprile 22nd, 2020 at 10:24 am
L’emergenza mondiale per il coronavirus sta provocando difficoltà economiche non indifferenti. I commerci sono rallentati e persino Amazon informa i clienti che i tempi di consegna delle merci potrebbero essere più lunghi del solito. Molti prodotti giacciono invenduti o restano in attesa di essere recapitati. Tra questi ci sono merci particolari, molto particolari, che, commissionate diversi mesi fa, sono “pronte per la consegna” o lo saranno a brevissimo. Il problema, però, è che il recapito non sempre sarà possibile.
Shandi Phelps, per esempio, una donna residente in Oregon, si trovava a due settimane dal parto quando il presidente Donald J. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti d’America avrebbero limitato i viaggi con destinazione Cina. Un grosso problema per lei, perché il figlio che di lì a poco sarebbe nato era stato commissionato proprio da una coppia cinese, che in quel momento si trovava a oltre 6mila chilometri di distanza.
E Shandi non è certo l’unica donna a essersi trovata in questa condizione: Tabitha Koh, responsabile legale del Northwest Surrogacy Center di Portland afferma che, nell’insolita situazione in cui «un bambino sia pronto a esser dimesso dall’ospedale (in Oregon di solito uno o due giorni dopo la nascita), e i genitori non siano lì per assumersi la responsabilità», lei e il suo staff debbono fare gli straordinari. Però adesso l’“insolita situazione”, in tempi di pandemia, è diventata la normalità. Koh e soci si sono quindi trovati a dover aiutare dozzine di “genitori intenzionali” a entrare negli Stati Uniti prima della nascita dei bambini, anche con due mesi di anticipo sulla data del parto, come del resto consiglia di fare anche l’Infertility Law Group. Quando ciò non è stato possibile, il neonato, proprio come quello di Shandi, resta in una specie di “limbo”, con l’agenzia che ne ha seguito la gestazione disponibile ad affidarlo a una “tata”. Shandi e il marito hanno deciso invece di tenere con loro il piccolo, per tutto il tempo necessario, «senza ricevere compenso aggiuntivo in aggiunta a quello che stanno già ricevendo per la gestazione surrogata, ad eccezione degli eventuali salari persi nella necessità di prendere una aspettativa dal lavoro». Una “generosità” che i genitori committenti hanno ricambiato «permettendo alla famiglia Phelps di scegliere il nome inglese del bambino».
Le difficoltà nel “ritirare” il figlio commissionato non riguarda peraltro solo le coppie cinesi. Una coppia omosessuale di Norfolk, nel Regno Unito, era bloccata a Portland senza la possibilità di ottenere un passaporto per il bambino, nato pochi giorni prima, dal momento che le autorità statunitensi stanno rilasciando passaporti solo in caso di gravi emergenze. Senza il documento per il neonato è per loro impossibile rientrare in patria, dato che al piccolo non verrebbe riconosciuta la cittadinanza britannica. Come racconta The Guardian, Rober Pope, avvocato sempre in Oregon, afferma che «ci sono centinaia di famiglie attualmente bloccate, o che stanno per essere bloccate, negli Stati Uniti proprio ora a causa del coronavirus». Secondo il suo conteggio – non ufficiale – ci sono più di un centinaio di bambini nati o che stanno per nascere in queste settimane, i cui “committenti” provengono da Francia, Singapore, Israele, oltre che dalla Cina. L’avvocato Pope si sta spendendo affinché «l’agenzia dei passaporti includa la maternità surrogata nella definizione di emergenza in modo che i genitori possano ottenere il passaporto per questi bambini».
C’è poi un non trascurabile particolare, nel caso in cui si verificasse l’infausta circostanza per cui un bambino nato tramite utero in affitto dovesse contrarre il coronavirus: per come funziona negli Stati Uniti, «è necessario essere residenti per ottenere un’assicurazione sanitaria. Se qualcuno di loro dovesse ammalarsi, sarebbe un problema enorme».
La situazione più problematica resta quella in cui il bambino venisse alla luce senza che la famiglia “intenzionale” potesse raggiungerlo, caso mai nemmeno la “madre surrogata” fosse disposta a prendersene cura. La cosa sta peraltro accadendo sempre più spesso in quello che è stato definito un «caos nel processo della maternità surrogata». Will Halm, socio del Reproductive Law Group, dichiara che le agenzie di maternità surrogata stanno creando veri e propri piani di emergenza: nello scenario migliore, si spera che amici o familiari che vivono negli Stati Uniti possano temporaneamente assumere la tutela del bambino finché i “genitori designati” non potranno entrare nel Paese. In caso contrario verranno reclutati estranei, operatori sanitari «che si prendano cura dei neonati finché le restrizioni di viaggi non saranno allentate». I bambini, dunque, non saranno abbandonati (dobbiamo esultare?), ma dietro adeguato compenso qualcuno si occuperà di loro, in attesa della “consegna” definitiva.
Ora, il punto è che nessuno sta sollevando dubbi sull’opportunità di proseguire un “commercio” simile. Nessuno parla della sofferenza evidente a cui questi bambini sono consegnati una volta che sono stati strappati dal ventre che li ha accuditi e poi partoriti. Lasciati a “operatori sanitari” per un tempo indeterminato attenderanno finché la “famiglia intenzionale” potrà riceverli. Sempre che nel frattempo questa non abbia “cambiato idea”. La Tammuz Family, un’agenzia internazionale che si occupa di utero in affitto negli Stati Uniti, in Ucraina, in Georgia e in Colombia, rassicura i potenziali clienti: «non c’è ragione alcuna, al momento, per procrastinare l’inizio del processo», anche perché «il primo pagamento alla Tammuz Family può essere rimborsato nel caso in cui si scelga di annullare o di posticipare il processo». Il business continua sempre.