Era il 2012 quando due ricercatori italiani di un istituto australiano, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, pubblicarono un articolo intitolato After-birth abortion: why should the baby live?. Senza mezzi termini, i due studiosi affermavano che il cosiddetto «aborto post-nascita» (ovvero l’«eutanasia neonatale», cioè, in parole povere, l’infanticidio) dovrebbe essere ammesso in tutti i Paesi che accettano l’aborto come pratica lecita sul piano giuridico ed etico.
Secondo la definizione di “persona” introdotta nel 1975 dal filosofo statunitense Michael Tooley al fine di legittimare l’aborto, il neonato, come il feto, non può infatti essere considerato persona in un senso moralmente rilevante e neppure si reca danno a un neonato prevenendone il potenziale divenire persona. La conclusione è che «[…] se lo stato morale del neonato è lo stesso di quello del nascituro e se nessuno di loro ha alcun valore morale in virtù del fatto di essere solo una persona potenziale, allora la stessa ragione dovrebbe giustificare l’omicidio di una persona potenziale quando è appena nata».
Ebbene, hanno perfettamente ragione. Hanno ragione perché affermano una evidenza. Non c’è differenza tra lo “status morale” di un feto e quello di un neonato. Se è lecito uccidere il primo (cioè porre termine all’esistenza di un individuo nel ventre della propria madre), è altrettanto lecito porre fine all’esistenza di un individuo appena uscito dal ventre materno. Non per nulla, come spesso accade oggigiorno a chi ha ragione, i due malcapitati Giubilini e Minerva sono poi stati costretti a pubblicare una lettera di scuse, sottolineando come il loro intento non fosse quello di promuovere la legalizzazione dell’infanticidio: si trattava di un «mero esercizio di logica» entro il puro «dibattito accademico».
Infanticidio
Al di là della tristissima svalutazione del valore del confronto filosofico a opera di due “addetti al settore”, a soli otto anni di distanza è possibile verificare come le conseguenze di certi «esercizi logici» non restino purtroppo quasi mai sulla carta.
Con una legge approvata in marzo , e di cui “iFamNews” aveva subito dato notizia, forse per caso – o forse no – alle medesime latitudini dove Minerva e Giubilini discettavano anni fa, la Nuova Zelanda non ha solo depenalizzato l’aborto, ma ha pure introdotto una liberalizzazione tale per cui qualsiasi richiesta di interruzione di gravidanza «potrebbe essere accettabile». Persino quella operata il giorno prima del parto naturale, senza alcuna condizione, onde salvaguardare il benessere della madre.
Ma c’è di più: i due terzi dei parlamentari neozelandesi hanno rigettato un emendamento che prevedeva l’obbligo di cura per i bambini nati vivi da aborti “malriusciti”.
Ciò significa che in Nuova Zelanda non solo sarebbe possibile abortire fino al termine della gravidanza, ma che i bambini che sopravvivessero ai tentativi di “aborto” – anche laddove praticati fino al nono mese di gravidanza – verrebbero lasciati morire.
Non è forse infanticidio questo? E per qual motivo sarebbe giustificato lasciar morire un neonato frutto di un aborto, e non invece un neonato nato a termine, che abbia subito complicazioni durante il parto o che mostri solo alla nascita patologie o malformazioni? Oppure se la madre, semplicemente, dopo aver partorito “cambiasse idea” e il bambino non lo volesse più?
Agnes Loheni, parlamentare del Partito Nazionale Neozelandese, sta ora tentando la strada del referendum per domandare l’abrogazione della legge, visti anche i risultati di un sondaggio secondo il quale solo il 2% delle donne neozelandesi sosterrebbe l’aborto fino alla nascita. Forse proprio per la consapevolezza dello scarsissimo sostegno tra i cittadini, la legge è stata fatta passare nel momento in cui l’opinione pubblica era distratta dell’epidemia di coronavirus, come denunciato già a marzo da Right to life in un articolo recentemente salito alla ribalta anche dei media italiani.
Pena di morte
Appare del resto ancora più evidente la schizofrenia neozelandese, laddove il premier, Jacinda Arden, esaltata in tutto il mondo per il «pragamatismo empatico», ha in pochi mesi sdoganato la legge sull’aborto più estrema del mondo, e ora sta preparando la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Eppure – come dice la scienza – un individuo è «un essere umano vivente ed unico, dal momento in cui lo spermatozoo feconda l’uovo alla sua morte naturale».
Si fatica insomma a comprendere l’alta carica di empatia del premier Arden – che nelle dirette Facebook durante il lockdown addirittura rassicurava i piccoli neozelandesi dello statuto di «lavoratori essenziali» per il coniglietto pasquale e la fatina dei denti – riservata ai soli bambini già nati: quelli, per loro fortuna, sfuggiti alla “pena di morte” che grava oggi nel Paese su ogni concepito fino al giorno del parto grazie alla legge da lei voluta.