Last updated on Maggio 28th, 2020 at 07:38 am
Nutre l’anima di stille di rugiada ascoltare Flora Gualdani. Toscana della provincia di Arezzo, classe 1938, ostetrica dal 1959 e puericultrice, ha fatto nascere diverse migliaia di bambini nella sua città e in giro per il mondo. In mezzo a guerre e tra sacche d’indigenza, ha dato compimento a un suo personale servizio alla “maternità senza frontiere”. Nel 1964 ha fondato Casa Betlemme, una delle prime case di accoglienza per ragazze madri, divenuta negli anni anche un centro di formazione, un vero e proprio think tank per la vita nascente e contro l’aborto. Oggi Flora è un’anziana signora, che mantiene intatta la sua passione quando si parla dell’opera grande per cui ha speso la vita.
Secondo una circolare del ministero della Salute diramata a fine marzo, gli aborti rientrano tra le prestazioni sanitarie non differibili, anche in piena emergenza coronavirus. Come si spiega che l’aborto sia considerato un’esigenza così urgente?
È semplicemente la conseguenza di una deriva culturale, quella che san Giovanni Paolo II (1920-2005) chiamava «cultura di morte»: parte da certi pensatori o da certe ideologie, diventa politica e poi strategia sanitaria, trasformandosi in mentalità corrente. Il Pontefice parlava di delitti che vengono ribaltati in diritti. Si è ormai arrivati a normalizzare l’aborto considerandolo un «diritto fondamentale», un bene primario: e quindi lo si difende a ogni costo come una prestazione sanitaria. Ma resta e resterà sempre la soppressione di un piccolo essere umano innocente. Siamo nel tempo di Pasqua e tornano in mente le parole del Vangelo: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37). La deriva culturale a cui mi riferisco è di stampo eugenetico e animalista, che s’inquadra nella bioetica “post-cristiana”. Nelle festività pasquali notiamo infatti una ricorrente campagna pubblicitaria in favore degli agnellini, mentre i numeri scandalosi dell’aborto rimangono pressoché nell’indifferenza generale. Mi risulta che nel mondo siano stati praticati, soltanto nei primi quattro mesi di quest’anno, più di 14milioni di aborti.
Alcune associazioni hanno lanciato un appello, cui hanno aderito volti noti della tv e della politica, affinché venga portata a domicilio la pillola Ru486. Cosa si sente di dire a chi minimizza così un atto simile?
Direi loro: avete mai pensato che la Ru486 non è una pillola ricostituente, ma una pillola devastante che distrugge un uomo? E li sapete i rischi che corre la donna? Con la Ru486 i medici si deresponsabilizzano, mentre la donna deve compiere da sola, a casa, quel gesto enorme e terribile, un aborto chimico tra il comodino e la toilette. Consiglierei la lettura di uno dei primi libri interessanti che uscì in Italia sull’argomento, di Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella: La favola dell’aborto facile. Mito e realtà della Ru486. E poi vorrei tornare alle parole del genetista e pediatra francese Jérôme Lejeune (1926-1994), uno dei miei grandi maestri, un gigante della scienza e della fede. Padre della genetica moderna, nel 1989 affrontò uno storico confronto televisivo in Francia: il biochimico ed endocrinologo francese Étienne-Émile Baulieu, inventore della Ru486, ne uscì distrutto da Lejeune, che lo inchiodò alla sua responsabilità di inventore del primo «pesticida antiumano», uno strumento per «crimini contro l’umanità». Ricordo che di quel dibattito televisivo ne riportò la trascrizione un numero del periodico del Movimento per la Vita italiano, Sì alla vita. A questo grande scienziato cattolico moderno, tanto coraggioso quanto scomodo, dovremmo attingere di più, sia come Chiesa che come società: rendendogli l’omaggio che merita.
Pochi giorni fa è morta a 92 anni la sua amata moglie Birthe Lejeune…
…che ha dedicato l’esistenza a portare avanti l’opera del marito. Un giornalista chiedeva al professor Lejeune cosa possiamo fare di fronte all’orizzonte preoccupante della bioetica: «Dire la verità, nient’altro che la verità, ma tutta la verità. Bisogna testimoniare, specialmente davanti alle giovani generazioni. In questo modo potranno diventare generazioni che rispettano la vita». Richiamandosi all’inizio del pontificato di san Giovanni Paolo II, il santo genetista francese ripeteva: «Non abbiate paura del magistero, non vergognatevi», perché la storia giudicherà sulle parole di vita e le parole di morte.
Negli anni, con Casa Betlemme, lei ha aiutato tante donne. Le ragioni che le spingono alla scelta drammatica di abortire sono cambiante nel tempo o sono sempre le stesse?
L’uomo e la donna nel profondo non cambiano, si portano nel cuore le ragioni del bene e del male. Perché è la verità che non cambia: né con le epoche storiche, né con le mode né con le maggioranze, come spiegava Benedetto XVI. Se non viene aiutata a fare scelte di vita, la donna è portata verso la scelta drammatica che lei considera inizialmente risolutiva, ma poi è destinata a viverne le conseguenze negative, che sono pesanti nonostante alcune femministe insistano nel minimizzarle. Come qualcuno ha detto, il referto di ogni aborto è sempre lo stesso: un morto e un ferito. Ormai la letteratura medica ha identificato questa sindrome come “trauma post-aborto”. Una ferita profonda, una sofferenza viscerale che la donna si porta dentro e che può riemergere anche dopo tanto tempo. Tornando alla domanda, direi che oggi si è ridotta molto la consapevolezza della gravità di quel gesto, anche a causa dell’aborto chimico e farmacologico, i quali accelerano la procedura togliendo il tempo del ripensamento. Nell’emergenza educativa, i giovani oggi non hanno più i fondamenti per distinguere il bene dal male. La pressione ambientale, sociale e culturale è fortissima e va in una direzione sola. Un tempo le donne si lasciavano più facilmente aiutare per abbandonare il marciapiede e proseguire la gravidanza. Oggi invece è molto più difficile aiutare una donna che ha in mano il certificato per l’aborto. Nonostante ciò, il motivo per cui una donna abortisce ‒ ieri come oggi ‒ rimane fondamentalmente la solitudine. La donna che si sente amata non abortisce, lo dico per esperienza. Occorre però un approccio non da ufficio di sostentamento. Nell’ascoltare i tormenti di quella donna bisogna farsi carico personalmente dei suoi pesi, condividerne il cammino. E la donna avverte la differenza. Per quanto mi riguarda è lo stile che ho scelto a Casa Betlemme fin dall’inizio. Ancora oggi faccio spesso colloqui con donne tentate dall’aborto, da ogni parte d’Italia e di ogni livello culturale. Lunghi colloqui di andata e ritorno, senza orario. Adesso l’accoglienza è sospesa per problemi strutturali ma quando arrivava una donna tentata dall’aborto le dicevo: «Non hai un tetto? Vieni a casa mia». Oppure: «Non sai come pagare la bolletta? Te la pago io». Usando il mio stipendio e adesso la mia pensione. Su questo stile un po’ folle e francescano ho consumato tutta la mia esistenza e i miei beni. Mi sono affidata non alle convenzioni economiche ma ad alcune forti convinzioni. Scegliendo la via della povertà, nel mio piccolo ho preferito la divina Provvidenza e il patrocinio di tre santi invece che quello di politici e potenti.
Quante donne hanno scelto di portare a termine la gravidanza grazie al sostegno di Casa Betlemme? Qualcuna si è mai pentita della scelta?
Non ho mai tenuto i conti perché non avevo tempo e sono allergica alla burocrazia. L’unica cifra di cui sono sicura è che nessuna donna, pur nelle difficoltà, è mai tornata da me pentita di aver accolto la vita. Neppure la undicenne incinta di incesto, la prostituta o la donna vittima di violenza, cioè i cosiddetti “casi limite”. Tra il lavoro in ospedale, l’accoglienza e i colloqui con le donne, credo che siano qualche centinaio i bambini tolti dalla pena d’aborto, e altrettante le donne che a Casa Betlemme hanno scoperto la libertà di non abortire. A queste donne non ho dato assistenzialismo. Le ho aiutate a recuperare la loro dignità e a tornare autonome in mezzo alla società. La maternità è stata la loro “terapia” adeguata. L’unica. Quelle centinaia di bambini non dovevano esserci e invece oggi sono cittadini adulti che producono, pagano le tasse, hanno una famiglia. Questo frutto ha un valore anzitutto sociale ed economico che nella nostra epoca di inverno demografico (direi di “inferno” demografico) si definisce come “capitale umano”. Con un termine oggi di moda potremo definire Casa Betlemme un piccolo “ospedale da campo”: un mini-villaggio della solidarietà, dove ho accolto decine di storie di sofferenza e casi sociali. Storie indicibili di umana catarsi, dove ho visto rifiorire l’impensabile grazie a quella faticosa maternità. Nella mia esperienza nessuna donna, dicevo, si è pentita di aver accolto la vita che portava in grembo. Perché la natura femminile è visceralmente materna. E la nostra natura, come la nostra coscienza, non si possono azzerare. In questo “ospedale da campo” mi sono specializzata nel prendermi cura, con premura, non soltanto delle maternità più difficili ma anche delle maternità negate. Di quelle donne cioè che hanno inizialmente fatto una scelta diversa e poi me le sono viste tornare magari a distanza di decenni con i capelli imbiancati. Le aiuto usando il balsamo della misericordia (che riscatta, dà speranza e libertà) e con lo sguardo della trascendenza con il quale capiscono che il loro bambino è vivo e un giorno lo incontreranno di nuovo, ma devono ricongiungersi e riconciliarsi con lui fin da adesso. È un lungo cammino di accompagnamento, tra spiritualità e psicologia, che porta frutti meravigliosi. Uso una mia ricetta personale che ho condensato in uno scritto intitolato Lettera a una donna ferita, pubblicato da Costanza Miriano sul suo blog.
Casa Betlemme è nata grazie a una storia eroica, quella di Lucia. Vuole raccontarcela?
Era l’estate 1964 e, mentre a Roma c’era il Concilio, io mi trovavo nel mio primo viaggio in Terra Santa nella grotta di Betlemme, dove mi aveva appena folgorato una forte intuizione: avevo capito che un giorno la procreatica sarebbe diventata questione epocale e drammatica. E che il terzo millennio dovrà tornare a genuflettersi davanti al Creatore. Rientrata in Italia trovai in reparto questa giovane gestante 24enne, sposata e povera. Era malata gravemente di cancro ma non intendeva abortire, nemmeno davanti al consulto dei tre specialisti. Accettò di sopportare dolori atroci rinunciando a terapie pesanti che glieli avrebbero attenuati ma avrebbero danneggiato il feto. Le rimasi accanto con l’amicizia e con la preghiera. La bambina nacque, era sana e aveva due splendidi occhi azzurri. Me la portai a casa, fu il mio primo amore. La tenni con me finché quella madre coraggiosa, lentamente, guarì. Sul momento pensai che la cosa sarebbe finita lì, invece Dio aveva un progetto. Quel bambino accolto diventò il primo di una lunga serie. Oggi Lucia è un’anziana signora che con suo marito fa la nonna, perché quella sua bambina è cresciuta, generando a sua volta. Dio è regale, restituisce vita per vita: a chi ha messo il rispetto della vita al primo posto. Il chicco si fa spiga, e la spiga un’altra spiga, e poi ancora, fino all’ultima aurora. Chi genera è perennemente generante.