Joker di Todd Phillips è un capolavoro. Dirlo, ripeterlo è un luogo comune, ma cos’altro si può fare? Joker, il film, è un capolavoro perché Joker, il personaggio, è un capolavoro. Uno dei cattivi meglio riusciti di sempre. Imprevedibile, assurdo, irrazionale, gratuito, esagerato: il male è così, e non c’è altro modo di rappresentarlo se non Joker. L’arte sublima la realtà e la rende meglio conoscibile attraverso il contrasto, il paradosso, la surrealtà. C’è infatti il surrealismo come fuga dalla realtà e poi c’è il racconto, il cinema, il fumetto, che gonfiano la realtà come fa il ritrattista quando ingigantisce difetti o pregi o comunque segni particolari del modello di cui traccia la caricatura.
«Personaggio» (di una storia, di un film, di un fumetto) in inglese si dice character, che in realtà è greco, χᾰρᾰκτήρ, kharaktēr, sostantivo che indica lo strumento atto a incidere o la stessa persona che incide, che lascia il segno, che marca, e quindi, subito dopo, in senso traslato e per estensione, è il segno lasciato, come un’impronta (imprint), niente meno che sull’anima di una persona. Persona, si sa, è termine latino, derivato dall’etrusco, per indicare la maschera usata dall’attore nella recitazione, ma non nel senso, banale, del nascondersi dietro un paravento, quanto invece dell’indossare, del vivere una caratteristica (character). Con l’Ellenismo il greco kharaktēr prende infatti ad assumere il significato di “definire una qualità”, una qualità come “caratteristica individuale”: quello sei, né altro puoi essere. Ha, questo concetto, una correlazione stretta con quello di natura data, inviolabile, immodificabile. È nella seconda metà del Seicento che prende a indicare la figura che impersona (eccoci) il protagonista, l’antagonista o la comparsa in una rappresentazione scenica o in un testo narrativo in relazione alle qualità che l’autore vi ha inciso e marcato nell’animo (l’autore è infatti il dio della propria creazione narrativa). Fra l’antica Grecia e l’uso seicentesco vi è poi l’elaborazione originale e unica del concetto di persona, frutto della teologia cristiana.
L’anima fatta a pezzi
Il personaggio Joker è la chiave di volta della vicenda umana Joker. La differenza fra la letteratura horror e lo splatter è lo stesso che corre fra l’amore e la pornografia: una storia, la prima, con un capo e una coda versus un insieme disarticolato e sghembo di scene di sesso. La prima, cioè, ha persino un senso, una morale, talora un messaggio. Un buon horror è dunque un testo, visivo o scritto, che traumatizza lo spettatore o il lettore per comunicare un aspetto della realtà, e se è fatto bene alla fine gli lascia nelle mani (e nella testa, e nel cuore) qualcosa. Joker, il film,è un ottimo horror.
Joker è una caricatura dell’umano, che finge di vivere l’esistenza come un gioco e che invece si avviluppa sempre più nelle spire di una tragicommedia che lo trascina inesorabilmente in fondo. Progressivamente tutto diventa, ai suoi occhi, male. La luce si affievolisce fino a spegnersi. Il punto di non ritorno lo raggiunge quando salta di qualità compiendo un omicidio, il primo di una serie, perché spalancare una porta socchiusa è facile, difficile è aprirla quando è chiusa. L’Horcrux del mondo di Harry Potter è il luogo della magia più indicibile, un oggetto in cui un Mago Oscuro nasconde un frammento della propria anima nel tentativo superomistico e blasfemo (magico, appunto) di ottenere l’immortalità (cosa ben diversa dalla vita eterna, si evince dal mondo di J.R.R. Tolkien). È l’atto più orribile poiché viola le leggi della natura e della morale attraverso l’atto malvagio supremo, l’assassinio che depaupera l’anima di chi lo commette frammentandola. L’omicidio infrange l’anima: per questo διάβολος, diábolos (quel diavolo che è bugiardo e omicida sin dal principio), significa «divisore».
Like a rolling stone
L’omicidio commesso da Joker non ha alcun significato, non ha scusanti, non ha senso. È solo la maturazione piena della sua maschera (persona), il segno nuovo inciso sulla sua anima, la permutazione alchemica di ogni valore, il raggiungimento dell’abisso. Cambia volto, infatti, Joker, sostituendo le sembianze umane con quelle del clown, un topos classico della letteratura horror. Muta il riso in pianto, abita solo là dov’è stridore di denti, tramuta la realtà in farsa e la vita in sventura. Guarda il mondo con una smorfia, canzonandolo. Ride, ma è un trucco. Esplode in risate isteriche quando non deve, per contrappasso: fuori luogo, sempre non in ordine. Prende botte e masochisticamente si sganascia. Non può farne a meno, qualcosa di incontrollabile, di sconosciuto, di atavicamente buio oramai lo possiede. E lui balla sul male del mondo, re del male del mondo. Più che altro in realtà si contorce, si dimena, preda di un demone antico. La danza con cui Shiva celebra il ciclo di creazione e distruzione mentre il mondo precipita nel caos e Gotham City diventa l’inferno. Sghignazza con uno sberleffo, come la linguaccia irriverente emblema dei Rolling Stones. Balla, Joker, sul nulla del mondo con gli scatti di Mick Jagger, il cui famoso Sympathy for the Devil (1968) è un’epitome grandiosa di teologia della storia: «Ero da quelle parti quando Gesù Cristo/ ebbe il suo momento di dubbio e di dolore/[…] Ero nei paraggi di San Pietroburgo/ quando vidi che era tempo di cambiamenti./ Uccisi lo zar e i suoi ministri./ Anastasia urlò invano». Nella scena iconica in cui nel film Joker balla scomposto scendendo una scala la musica è quella di Rock and Roll Part 2 di Gary Glitter, il rocker inglese in carcere dal 2015 con una condanna a 16 anni per tentato stupro, quattro accuse per aggressione sessuale e una per aver fatto sesso con una ragazza di meno di 13 anni.
L’Ultimo Cavaliere sulla Terra
Sarebbe semplicissimo però sbagliare Joker, scambiando il personaggio per un sociopatico, vittima delle circostanze e quindi, in fondo, innocente. Un prodotto sbagliato della società, un capro espiatorio delle strutture che alienano. Affatto. Arthur Fleck è un comico fallito che un giorno sceglie di diventare Joker. Non c’è ambiente che tenga. Ecco, il mistero del male passa per quell’attimo in cui puoi scegliere se essere santo o peccatore, e nessun altro sceglie per te. Cosa divide Arthur Fleck dal giovane Bruce Wayne? Nulla, a entrambi la vita strappa tutto, ma uno diventa Joker e l’altro l’Ultimo Cavaliere sulla Terra, The Batman. Una giornata sbagliata ce l’hanno tutti, ma un atto imperscrutabile e non appaltabile della volontà solca il divario incolmabile tra il diavolo e l’acqua santa: l’ermeneutica più precisa di Joker l’ha data, con una battuta ermetica e sapidissima, Davide Van De Sfroos durante lo showcase del 28 novembre a Milano. La differenza fra Joker e Batman sono le scelte personali, come l’uomo-pipistrello dice all’agente Jim Gordon che da piccolino, nella tragedia, ha fatto la differenza al termine de Il cavaliere oscuro. Il ritorno di Christopher Nolan: «Chiunque può essere un eroe, anche un uomo che ha fatto qualcosa di così semplice e rassicurante come mettere un cappotto sulle spalle di un ragazzo giovane, per fargli sapere che il mondo non era finito».
Contro lo «specismo»
Il mondo non è finito nemmeno ora. Joker di Todd Phillips è un capolavoro e il 10 febbraio il suo protagonista, Joaquin Phoenix, attore straordinario, ha vinto l’Oscar per l’interpretazione migliore lanciandosi in una scontata concione tanto politicamente corretta quanto confusa in cui ha rimestato nello stesso pentolone disuguaglianza di genere, razzismo, LGBT+, animali e popoli aborigeni, servendoli in una ratatouille chiamata “diritti umani”. Diritti umani: l’universo liberal ne ha sabotato completamente il concetto, tanto da renderlo per sé fungibile, per noi inservibile. Non è farina del mio sacco, ma di quello di Aaron Rhodes, presidente del Forum for Religious Freedom Europe e autore di The Debasement of Human Rights: How Politics Sabotage the Ideal of Freedom. Ne ho discusso con lui settimana scorsa a Seoul, in Corea del Sud. Il calderone di Joker, oops di Phoenix distilla la cicuta finale scagliandosi contro lo «specismo», il neologismo con cui dagli anni 1970 l’ecologismo radicale e militante stigmatizza la diversità fra l’uomo e gli animali: «Ci sentiamo in diritto di inseminare artificialmente una mucca, e quando questa partorisce, le rubiamo la creatura anche se il suo pianto di angoscia è inequivocabile. Poi prendiamo il suo latte, che la mucca teneva per il suo vitello, e lo mettiamo nel nostro caffè o nei nostri cerali». È un crimine bere il latte di una mucca. Invece è una virtù sociale massacrare milioni di bambini ancora nel ventre materno o giustiziare i malati, i disabili, i vecchi. Joker zampetta sul mondo la danza di Shiva, contorcendosi in un marameo beffardo. (Ma il mondo non è finito nemmeno ora.)