Last updated on Dicembre 12th, 2021 at 04:05 am
Il 1° dicembre potrebbe diventare una data storica, seconda soltanto a una data del giugno 2022 ancora da precisare. Negli Stati Uniti d’America, ma certo non soltanto per gli Stati Uniti.
Il 1° dicembre, infatti, mercoledì scorso, la Corte Suprema federale degli Stati Uniti ha aperto il dibattimento sul caso Thomas E. Dobbs, State Health Officer of the Mississippi Department of Health, et al. v. Jackson Women’s Health Organization, et al., il decisivo caso comunemente chiamato «Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization».
SCOTUS – l’acronimo ufficiale in uso per indicare il supremo tribunale del Paese, Supreme Court of the United States – è infatti dal 1° dicembre chiamata a giudicare la costituzionalità di una legge varata nel marzo 2018 dallo Stato del Mississippi che vieta l’aborto dopo la 15a settimana di vita del bimbo che cresce nel grembo della mamma, salvo emergenze mediche o conclamati handicap seri del bambino, ma esclusi i casi di stupro e di incesto.
A fronte di ciò, i soliti giudici dei soliti tribunali si sono appellati, poiché, a proprio avviso, quella legge del Mississippi sarebbe in contrasto con quanto stabilito dalla medesima Corte Suprema nel 1973 mediante la sentenza che chiuse il caso Jane Roe, et al. v. Henry Wade, District Attorney of Dallas County, comunemente chiamato «Roe v. Wade», sentenza che dichiarò l’aborto non-illegale in tutto il Paese, e con i successivi aggiustamenti.
Perché, dicono gli oppositori della legge del Mississippi, se la sentenza Roe v. Wade non viola la Costituzione federale, per forza deve allora farlo una legge che confutasse quella sentenza.
Lapalissiano. Tanto da essere vero anche l’inverso: se la legge del Mississippi non viola la Costituzione federale, per forza deve allora farlo la sentenza Roe v. Wade.
Questione di settimane
Ora, nel 1973 la sentenza Roe v. Wade stabilì che le donne statunitensi godono del diritto costituzionale ad abortire entro il primo trimestre di vita del piccolo che portano in grembo. A parte il fatto che la Costituzione federale non garantisce in alcun modo quel diritto, il 29 giugno 1992, al termine del caso Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania, et al. v. Robert P. Casey, et al., comunemente chiamato «Planned Parenthood v. Casey», SCOTUS alterò i termini stabiliti dalla sentenza Roe v. Wade, sostituendo il limite dell’aborto al terzo trimestre con il criterio di «viability», vale a dire la valutazione medica della capacità di sopravvivenza del bimbo fuori all’utero materno in caso di parto prematuro dettato da necessità appunto mediche. Stabilendo che molte delle leggi allora vigenti nei singoli Stati nordamericani che consentivano l’aborto prima del termine di viability violavano la privacy delle mamme, il massimo tribunale del Paese fissò allora alla 24a settimana di vita del bimbo detta viability.
Così la sentenza Planned Parenthood v. Casey ha sempre funzionato da specificazione vincolante della vincolante sentenza Roe v. Wade. La sentenza Planned Parenthood v. Casey non è infatti mai stata avvertita e vissuta come correzione della sentenza Roe v. Wade e nemmeno come sua precisazione, bensì come sua esplicitazione: un passaggio dalla potenza all’atto, il divenire carattere dominante di un carattere recessivo. E così la coppia di sentenze Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey hanno fatto sempre corpo unico, blindando ogni ulteriore azione di legge sull’aborto statunitense.
Ma nel 2018 il Mississippi ha ritorto la famigerata coppia contro se stessa. Nella sentenza Planned Parenthood v. Casey, infatti, il termine della 24à settimana non è fissato come vincolante. Lo è diventato di fatto, ma, stante che in punta di diritto appunto non lo è, è in questa zona grigia che hanno sempre operato le assemblee legislative che hanno cercato di restringere l’aborto il più possibile. Forse nessuno si è mai immaginato che la libertà lasciata dalla famigerata coppia potesse essere sfruttata come la sta sfruttando il Mississippi ora. O forse è il potenziale insito nella composizione odierna della Corte Suprema di Washington ad aprire speranze concrete.
Per la sentenza Planned Parenthood v. Casey, infatti, il limite alla 24a settimana deve essere sempre traguardato su questioni reali, fra le quali il progresso della medicina e della tecnologia che possono portare a risultati nuovi quanto alla viability del bimbo prematuro. Per esempio stabilendo, come in Mississippi, che alla 15a settimana la viability è un fatto che non può essere ignorato proprio, paradossalmente, in base alla sentenza Planned Parenthood v. Casey.
Oggi, allora, ponendo il limite massimo dell’aborto alla 15a settimana di vita del bimbo, la legge del Mississippi che SCOTUS sta giudicando ha la capacita di svellere la famigerata coppia Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey utilizzando per difesa le loro stesse armi di offesa. La posta in gioco è dunque decisiva.
Questione di vita o di morte
Poniamo infatti il caso che SCOTUS giudicasse costituzionale la legge del Mississippi. Se lo facesse, affermerebbe che la legge del Mississippi ha ragione nell’impedire l’aborto oltre la 15a settimana di vita del bimbo, quindi che la sentenza Roe v Wade precisata dalla sentenza Planned Parenthood v. Casey sbaglia se la legislazione vigente a livello federale viene intesa come tassativa sul limite della 24a settimana, come di fatto viene sempre fatto. Ma se l’applicazione della famigerata coppia fosse ritenuta sbagliata, allora la sua interpretazione andrebbe riconsiderata, a un passo dal rivederne la costituzionalità. Qualora fosse poi ri-giudicata incostituzionale, la famigerata coppia decadrebbe. E nel dubbio, o nell’attesa, la famigerata coppia smetterebbe di essere vincolante, con la possibilità di finire in un angolo, sempre più remoto, magari in attesa di una chiarificazione che potrebbe anche non arrivare mai, mentre nel Paese ben altre leggi comincerebbero ad apparire e a fare costume e a salvare vite.
Il giorno in cui questo accadesse sarebbe allora il Nove Novembre dell’aborto, quando il Muro che sbarra la vita inizierebbe a essere abbattuto.
Perché per ora ogni e qualsiasi questione giuridica riguardante l’aborto negli Stati Uniti si ferma lì, a quel confine imposto dalla famigerata coppia e dalla sua interpretazione a maglie larghe che non consente di andare oltre.
Certo, in qualunque data cadesse quel Nove Novembre non vieterebbe l’aborto negli Stati Uniti. Avrebbe però la forza devastante di introdurre dosi di sana anarchia feudale nell’ordinamento giuridico statunitense su vita e morte. Divelto l’oscuro impero galattico della legislazione federale amministrato con intransigenza dalla famigerata coppia Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey, la questione tornerebbe con tutta probabilità di competenza dei singoli Stati componenti l’Unione nordamericana.
Negli Stati Uniti non comanderebbe più una legge-bavaglio federale sull’aborto e la voce tornerebbe ai cittadini, considerati però non come una massa globale, bensì come comunità dei popoli che abitano ogni singolo Stato dell’Unione, ognuno carico della propria storia e della propria identità. Popoli, cioè, che eleggono i rappresentanti nelle assemblee legislative e a capo dell’esecutivo dei singoli Stati dell’Unione che abitano, oltre che quelli che li rappresentano a livello federale, affinché nell’assemblea legislativa sovrana e al vertice politico-istituzionale di ogni singolo Stato dell’Unione essi si esprimano anche su questioni decisive quali la vita e la morte dei cittadini che rappresentano nelle istituzioni.
Questione di storia
Si aprirebbe la strada, cioè, di legislazioni diverse Stato per Stato. Alcune più permissive e altre meno. In alcuni Stati dell’Unione l’aborto potrebbe persino venire vietato totalmente, se il limite del Mississippi alla 15a settimana di vita del bambino nel grembo della mamma non reggesse a ulteriori sfide.
Ovviamente non è l’ideale che ognuno faccia come gli pare. L’aborto sarebbe cioè ancora permesso. Oppure sì, è l’ideale sì che ognuno faccia come gli pare. Perché dell’aborto si potrebbe tornare a parlare, anzi sull’aborto si potrebbe tornare a legiferare, aprendo spazi cruciali per la difesa della vita che invece imperante la famigerata coppia Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey sono asfitticamente chiusi.
Perché una cosa dev’essere chiara sempre. Solo scardinando la famigerata coppia in maniera giuridicamente ineccepibile è possibile aprire varchi per la vita. SCOTUS potrebbe essere il picconatore che finalmente apre la breccia, affinché chi di dovere, cioè i popoli degli Stati dell’Unione nordamericana forti della propria storia e della propria identità, dunque i loro rappresentanti nelle istituzioni dei singoli Stati, sfondino completamente il muro.
All’aborto si è giunti, negli Sati Uniti e altrove, per gradi e solo per gradi lo si potrà smantellare. Nessuno può peraltro misconoscere che se l’inviolabilità della famigerata coppia Roe v. Wade e Planned Parenthood v. Casey cadesse, e l’aborto statunitense tornasse ad appannaggio degli Stati rompendo il plumbeo conformismo imposto sin dal 1973, l’effetto traino, il meccanismo mimetico e il precedente culturale a favore della vita contagerebbe immediatamente ogni singolo angolo del mondo. Appuntamento, allora, con la storia.