Last updated on Novembre 4th, 2020 at 06:28 am
Negli Stati Uniti d’America oggi (in Italia sarà notte fonda, fondissima) Donald J. Trump si gioca tutto. La rielezione con al fianco Mike Pence per continuare ciò che ha iniziato oppure la sconfitta contro Joe Biden e Kamala Harris, che ne sono l’antitesi netta. E non è affatto solo “roba da yankee”.
Di seguito provo a sbozzare l’idea che mi sono fatto della posta in gioco, scegliendo un’angolazione particolare, forse inusuale, persino insospettata, ma decisiva poiché riassuntiva e cumulativa di tutte le altre possibili. Per farlo, riprendo il filo di un discorso antico, iniziato nel marzo di quattro anni fa, che necessariamente in parte trascrivo riattualizzato.
La premessa
Il conservatorismo statunitense e il Partito Repubblicano sono due cose diverse. Nascono diversi e diversi crescono. Per parecchio tempo nemmeno si guardano. Poi qualcosa cambia, qualcosa di grosso, d’importante, e così la domanda e l’offerta s’incontrano. Il conservatorismo necessita di una rappresentanza politica, e dentro il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Patito Repubblicano) qualcuno abbisogna di un elettorato. Il connubio si celebra contribuendo a irrobustire l’appena nato movimento conservatore (come distinto dal pensiero conservatore in quanto tale) e a iniziare a renderlo incisivo sul piano concreto. Ma dentro il GOP avviene lo sconvolgimento, perché, di per sé, il GOP non è affatto un partito conservatore. Siamo negli anni 1960. Il nome d’obbligo qui è il senatore Barry M. Goldwater (1909-1998). Lo sconvolgimento prosegue e il tentativo di trovare la giusta quadra al connubio tra il GOP (cioè una sua parte, all’inizio nemmeno maggioritaria) e il movimento conservatore anche, finendo per generare il primo esperimento, un successo. Siamo negli anni 1980, e alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan (1911-2004).
A quel punto l’esperimento ottiene conferma sperimentale, più di una, ripetibile, osservabile, descrivibile, e quindi l’ipotesi, a norma di metodo galileiano, diventa teoria scientifica. Senza il movimento conservatore, il GOP perde; con i conservatori, vince. Tutte le volte che ha vinto o che ha perso è andata così. Lo storico Donald T. Critchlow ne mette la riprova nero su bianco in The Conservative Ascendancy: How the GOP Right Made Political History (2a ed. riveduta e aumentata University Press of Kansas, Lawrence [Kansas] 2011), recensendo la storia di questo sano, trasparente “voto di scambio”.
La fisarmonica
La saldatura tra GOP e movimento conservatore viene dunque scaldandosi o raffreddandosi a seconda che il personale del GOP al comando, o se non altro quello almeno disponibile, sia sensibile al conservatorismo oppure a esso allergico. È la storia degli otto anni della presidenza di George W. Bush Jr., dal 2000 al 2008.
Il movimento a fisarmonica di avvicinamento e di allontanamento tra GOP e conservatori, movimento che dipende dal personale in determinati frangenti disponibile, prosegue ciclico e un po’ frustrante, ma, come tutte le cose che si ripetono, lascia il segno, crea un solco, genera persino una tradizione. Nel caso americano di specie, la fisarmonica sposta progressivamente il proprio movimento di attrazione e di repulsione sempre più a destra, sia impercettibilmente (cioè fisiologicamente) sia per merito di personale politico cosciente. E di conseguenza l’arco del movimento a soffietto si restringe. Alla fine la fisarmonica non suona più, il movimento conservatore ha preso possesso del GOP e l’allontanamento periodico tra i due cessa. Il GOP non è un partito conservatore tout court, ma al suo interno esistono solo conservatori. È la storia del dopo Bush Jr. fra “Tea Party”, vittorie e sconfitte elettorali. Phyllis Schlafly (1924-2016), madrina e decana del movimento pro family degli Stati Uniti, costola imprescindibile del movimento conservatore americano, che iniziò tutto puntando tutto su Goldwater, ha documentato l’approdo del GOP nel suo prezioso How the Republican Party Became Pro-Life (Dunrobin Publishing, s.l. 2016).
Il dilemma
Un partito così ha però problemi seri a relazionarsi al proprio elettorato. Se l’elettorato è quello conservatore (anche perché altrimenti non si vincerebbe), e i candidati sono tutti conservatori (pur di scuole e sfumature diverse), ogni tornata di primarie in pendenza di elezioni presidenziali è allora una guerra fratricida, un massacro.
Il problema si è presentato per la prima volta in tutta la sua rotondità nel 2012. Mai come in quel momento storico il GOP fu rappresentato da conservatori, e persino animato da cattolici. Herman Cain, Michele Bachmann, Rick Santorum, Newt Gingrich, Ron Paul, Rick Perry e Mitt Romney erano tutti conservatori sul piano fiscale, sul piano della politica economica, sul piano della politica estera, sui “princìpi non negoziabili”. Tutti erano sinceramente e pubblicamente religiosi, e Santorum e l’ex presidente della Camera federale Gingrich (per conversione adulta) cattolici, così come cattolico era Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza, e pure John Boehner, divenuto presidente della Camera nella medesima tornata elettorale per poi essere sostituito da Ryan. Memorabile la sera in cui Gingrich parlò di Dio e gli americani si alzarono in piedi. Ebbene, il GOP, questo GOP, perse le elezioni perché non riuscì a trovare una guida unitaria. Un problema, enorme, di crescita.
Nel 2016 la situazione si è ripetuta identica, e quindi è stata più grave. I candidati in lizza nelle primarie erano ancora una volta tutti buoni conservatori: Jim Gilmore, Mike Huckabee, Carly Fiorina, Rand Paul, ancora Santorum, Jeb Bush, Ben Carson, John Kasich, Chris Christie, Marco Rubio e Ted Cruz. E ancora non riuscirono a trovare una sintesi efficace che consentisse la vittoria. Un tempo i nemici erano i liberal, diffusissimi anche tra i Repubblicani; dopo che l’opera di bonifica è stata compiuta, i conservatori del GOP hanno preso a cannibalizzarsi. Ed è qui che è entrato in scena Trump, lanciando una OPA sul Partito Repubblicano.
L’alieno
Trump è infatti un alieno. Viene da altrove. Con quel GOP e con i conservatori non c’entrava, ma è stato astuto. Sapeva di potere approfittare della situazione e quindi ha giocato le proprie chance. Uomo di minoranza (nelle primarie del 2016 ottenne circa un terzo dei voti Repubblicani espressi) e divisivo, stava disfacendo ciò che faticosamente era stato costruito. L’omogeneità culturale del GOP, raggiunta a caro prezzo lungo anni, nella prima metà del 2016 stava insomma cedendo sotto i suoi colpi. Ieri il nemico dei buoni Repubblicani era la fronda interna, con Trump il nemico ha cominciato a penetrare nel GOP da fuori. Trump mirava infatti a disfare una forza politica che, riconciliatasi con i custodi dell’autentico spirito della nazione, stava, per la prima volta nella storia americana, tentando la restaurazione, il ritorno al principio e fondamento dell’esperienza storica statunitense, e dunque al suo senso profondo.
Allora la forza di Trump fu sfruttare malanimi, malesseri e difficoltà reali, vendendo a parte dell’elettorato conservatore del GOP un conservatorismo falsificato che intendeva rispondere alla rivoluzione di Barack Obama con una rivoluzione di segno contrario, la rivoluzione essendo la distruzione dell’esistente, la contro-rivoluzione il suo contrario e la rivoluzione di segno contrario un’altra rivoluzione speculare.
La debolezza degli avversari Repubblicani di Trump era quella di non essere ancora usciti dalla fase rissosa della crescita e di non riuscire ancora a rendersi fino in fondo conto che il grande referendum sull’OPA lanciata da Trump, che doveva essere indetto passando per l’auspicabile riunificazione tra le anime conservatrici del GOP, era di fatto la scelta netta tra la rivoluzione e la contro-rivoluzione.
L’uragano
Chi qui scrive non ha mai fatto mistero di non essere trumpiano. Per tutte le primarie del 2016 avversò per iscritto e parlando in pubblico l’opzione Trump, e questo per un motivo preciso. Trump era sceso in campo con una missione scoperta: smantellare il Partito Repubblicano e i conservatori. Il motivo, probabilmente da rubricare alla voce hybris, non mi è mai importato, preferendo il fatto.
Trump mirava cioè a fermare una storia che, con tutti i suoi difetti, magari pure grandi, era una storia importante, a tratti grandiosa. La storia di un movimento di popolo cresciuto bene, pur con tutti gli acciacchi della crescita e i suoi ineliminabili difetti caratteriali, al punto da allevare anche (ma non solo) un personale politico capace di impegnarsi in un Partito Repubblicano, che, anno dopo anno, tappa dopo tappa, veniva per ciò stesso completamente modificato in bene. Un movimento di popolo che interpretava sempre meglio la sanior pars del Paese anche quando non era maior pars, ma che sempre più si candidava (soprattutto se avesse saputo intercettare le grandi sacche di non-voto esistenti a destra) a esserlo pure sul piano politico. Con un programma così ‒ lo dissi e lo ripetei ‒ Trump andava fermato.
Poi le primarie del 2016 si sono concluse con la nomination di Trump per la Casa Bianca. A quel punto il sottoscritto ha cambiato atteggiamento, sostenendo Trump a spada tratta perché il suo avversario, Hillary Clinton, era sinonimo di disastro politico, culturale, morale. Il mio restava un appoggio molto condizionato, accompagnato della riserva mentale, nemmeno tanto mascherata, delle immancabili critiche a Trump.
Due le cose che all’epoca maggiormente angosciavano il sottoscritto: la mancanza di garanzie di Trump, ma soprattutto la sorte della splendida avventura del GOP e del movimento conservatore. Perché una cosa era indubbia: Trump aveva portato comunque lo scompiglio nel GOP e tra i conservatori, e quello scompiglio permaneva.
Uno dei motivi che in seguito mi convinsero a sostenere ancora più decisamente Trump fu il suo realismo, condizione prima della contro-rivoluzione: aveva pochi numeri dalla propria parte e si rese perciò cioè conto che, senza il movimento conservatore, non avrebbe mai potuto vincere, quindi che senza il sostengo del GOP avrebbe perso. Era Trump a essere insomma cambiato, e questo meritava due urrà. Il mio terzo urrà, il numero perfetto, Trump se lo continuava a giocare con la grande, enorme incognita lasciata su ciò che sarebbe stato il futuro del GOP, ma soprattutto del mondo conservatore, dopo il passaggio dell’uragano Donald.
Il punto senza ritorno fu quando i conservatori del GOP si riconciliarono con Trump. Non tutte le fazioni del movimento deposero le armi, ma quel momento fu decisivo.
Il Medioevo
«Populismo» e «sovranismo» sono espressioni oramai abusate e quindi svuotate, ma è fuori di dubbio che Trump una modifica l’abbia introdotta. La domanda sul «dopo uragano», sia esso domani, qualora Trump non venisse rieletto oggi, oppure il 22 gennaio 2025, quando Trump uscirà definitivamente di scena qualora oggi venisse invece rieletto, resta ed è pressante, cogente, il tema essendo una esperienza entusiasmante e la sua possibile eutanasia. Per chi ha a cuore anche la storia importante che conservatorismo e GOP hanno costruito nei decenni il voto americano di oggi è quindi pure un referendum sull’uragano Trump.
Non si tratta di “canonizzare” Trump, ma di prendere atto di questo snodo cruciale dello scontro fra rivoluzione e contro-rivoluzione, di cui forse ci vorranno anni per comprendere appieno la portata. A suo tempo il “fenomeno Goldwater” non fu compreso subito, e così fu pure per il “fenomeno Reagan”, eppure sono state tappe decisive, e precedenti imprescindibili, della contro-rivoluzione statunitense.
Trump nato sfascista, ha invece edificato; e, dice bene Austin Ruse – presidente del Center for Family and Human Rights (C-Fam), tra l’altro autore di un utile The Catholic Case for Trump (Regnery, Washington 2020) –, ha istituzionalizzato il capitale sin qui accumulato da chi lo ha preceduto. L’ultimo libro, postumo, della madrina Schlafly è stato un rotondo The Conservative Case for Trump (Regnery, 2016), lucido, persino profetico. Il sottoscritto lo ha capito sino in fondo solo con il senno di poi, e del risultato mi rallegro.
Insomma Trump, il più improbabile e il più impossibile di tutti, ha cioè messo fine alla fase nascente della contro-rivoluzione americana. Ora se ne apre il Medioevo, la peregrinatio, cioè, che conduce al destino. Ci saranno cadute, sviste, topiche, ma la strada è segnata. E se pure, non voglia Iddio, Trump oggi dovesse perdere, quella costruita fino a oggi resterà la via, e i conservatori dovranno tornare ancora una volta per un po’ nella foresta di Sherwood, dove, cibandosi di locuste e miele selvatico, prepareranno e attenderanno il ritorno del re. Sì, il conservatorismo non solo è vivo, ma è politicamente maturo, grazie al Trump che voleva liquidarlo. Non mi sarei mai immaginato di scriverlo, ma lo faccio con trasporto. Al bivio fra rivoluzione e contro-rivoluzione, Trump ha imboccato e fatto imboccare la strada giusta, vada come vada.
Ebbene, l’imprenditore che si era dato alla politica per rottamare i conservatori e i Repubblicani, e che invece si è trovato costretto ad appoggiarsi proprio a loro, ha imparato a governare con loro e per loro, e, pur con tutte le frizioni del caso, anche grandi, ora è un uomo diverso. È l’uomo che non ha per niente fermato la storia bella del conservatorismo e del GOP, come aveva minacciato di fare e come avrebbe potuto fare, ma che, con modi e tempi che oggettivamente nessuno avrebbe potuto prevedere, figuriamoci scommettere e nemmeno forse auspicare, l’ha proseguita. Anzi, l’ha sospinta, l’ha aiutata. Trump oggi non è il nemico del conservatorismo che aveva voluto far credere, forse per primo a se stesso: è invece l’uomo che ne ha reso possibile uno sviluppo imprevisto ma ulteriore, addirittura necessario. Dirlo apertamente alla vigilia del trionfo o del disastro (di un mondo, più che del solo Trump, al di là del fatto che quel mondo se ne renda fino in fondo conto o meno) è il realismo che adesso si deve concedere alle cose.