Last updated on Maggio 21st, 2021 at 03:26 am
Un articolo pubblicato la settimana scorsa sul Global Times, organo ufficiale in lingua inglese del Partito Comunista Cinese, e ripreso in Italia dal sito AsiaNews, ha lanciato una notizia che merita attenzione: in Cina il 14° piano quinquennale per lo sviluppo economico e sociale nazionale, previsto per il periodo 2021-2025, cancella il family planning in favore di una fecondità più “inclusiva”.
Pare cioè che, dopo milioni di morti per aborto di Stato e infanticidi vari, la stretta del Partito sul diritto delle famiglie a mettere al mondo solo due figli (dopo la stagione del figlio unico), sia destinata ad allentarsi.
Per comprendere appieno la portata della questione è necessario fare alcuni passi indietro e ricordare quali siano state, nel tempo, le politiche demografiche messe in atto da Pechino a partire in particolare da Deng Xiaoping (1904-1997), leader de facto del Paese tra il 1978 e il 1992.
In una Cina stritolata dalla crisi economica dovuta alle follie del regime, iniziate fin dall’avvento al potere nel 1949 di Mao Zedong (1893-1976), nel 1980 Deng ha istituito la cosiddetta «politica del figlio unico», che imponeva alle famiglie (in particolare alle sole coppie sposate) la possibilità di avere un solo figlio. Poche e limitate eccezioni erano previste specie nelle zone rurali e meno sviluppate, nel caso in cui il primogenito fosse una femmina, e nel contesto di alcune minoranze etniche. Le ragioni di tali “concessioni” risiedevano prevalentemente, come ovvio, nella necessità delle campagne di reperire forza lavoro robusta per un’agricoltura estensiva che impiegava ben poca automazione.
“iFamNews” ha già narrato più volte gli orrori di tale politica, costellata di soprusi, di multe e sanzioni, di condanne al carcere, di violazioni dei diritti umani e in particolare di quelli femminili, di contraccezione e sterilizzazioni forzate, di aborti imposti con la violenza anche in fasi avanzate della gravidanza, di bambini sottratti ai genitori e avviati all’adozione internazionale dopo essere passati dagli orfanotrofi di Stato, di bambine, in particolare, abortite in numero tale da sbilanciare l’indice sex birth ratio (SBR) del Paese, cioè la proporzione tra i sessi nelle nascite.
Esiste un documentario, intitolato One Child Nation e visibile sul canale Amazon Prime, girato dalla regista cinematografica sino-americana Nanfu Wang e vietato ai minorenni, che narra tali vicende sconvolgenti vissute dal popolo cinese, preda del PCC e di una teoria meccanicistica e spietata che l’ha messo in ginocchio.
Nel 2015, a causa del crollo demografico di cui il Partito iniziava ad avere il sentore, è stata ampliata per le famiglie la possibilità di avere più di un figlio, ma comunque meno di tre: la politica, in pratica, dei “due figli unici”. La repressione e la persecuzione ai danni di chi contravvenisse a tale imposizione sono rimaste aspre e violente, perfettamente in linea con un regime che ai diritti umani presta ben poco credito e ben poca attenzione.
Né sono mancate anche ai giorni nostri, a tal proposito, le denunce di alcune, almeno, delle minoranze etniche del Paese, soggiogate anche tramite le politiche demografiche allo scopo di perpetrare un vero e proprio genocidio e imporre sulle popolazioni la prevalenza dell’etnia han, maggioritaria in Cina e considerata in qualche modo da Pechino come il “vero” popolo cinese, di millenaria cultura. È il caso degli uiguri, che abitano lo Xinjiang (o Turkestan orientale) e che denunciano come possono le politiche di aborti e sterilizzazioni di massa di cui sono vittime.
La crisi demografica non è stata arginata, per altro, dalle nuove misure e negli ultimi cinque anni la Repubblica Popolare Cinese ha visto piuttosto un vertiginoso calo nel numero delle nascite. Come anticipato da “iFamNews” e come riportato dall’articolo di AsiaNews «Nel 2019, il loro numero è stato il più basso dai tempi della Grande carestia (seguita al Grande balzo in avanti [1958-1961]). Secondo l’Ufficio nazionale di statistiche, lo scorso anno si sono avuti 14,65 milioni di neonati; l’anno precedente 15,23 milioni».
Le novità introdotte dal 14° piano quinquennale, ricompreso nel contesto della “Visione 2035”, delle previsioni cioè di più ampio respiro che dovrebbero traghettare la Cina verso gli anni 2030-2040 e forse anche oltre, hanno le loro basi saldamente ancorate in tale sfacelo demografico e nella necessità di porvi argine, come d’abitudine nel Paese, con qualsiasi mezzo.
La popolazione cinese invecchia, il sistema pensionistico scricchiola, la forza lavoro (sempre necessaria nonostante lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni) risulta insufficiente, la popolazione femminile in età fertile, falcidiata dalle politiche dissennate dei periodi precedenti, fatica a garantire il ricambio generazionale.
Sono esclusivamente queste, cioè di natura demografica, le preoccupazioni del regime: nulla a che vedere con i diritti umani o all’autodeterminazione della popolazione. E non tutti gli studiosi intervistati dal Global Times sono concordi sull’immediatezza delle nuove politiche, più “permissive”: «L’adeguamento e il miglioramento della politica sulla fertilità è una parte importante della strategia nazionale per affrontare l’invecchiamento della popolazione, ma come la politica può essere adattata durante i prossimi cinque anni, e se attuare la politica del terzo figlio, o anche per rimuovere completamente la restrizione, rimane poco chiaro », afferma Lu Jiehua, docente di Sociologia nell’Università di Pechino.
Un’altra nota che appare, se non stonata, poco chiara, è la pretesa “inclusività” delle nuove misure che il regime prevede di mettere in atto.
La frase «rafforzare l’inclusività della politica di fertilità», infatti, è stata interpretata in modo differente a seconda dell’interlocutore. Qualcuno ha inteso che i gruppi considerati minoritari, per esempio le donne non sposate o le coppie dello stesso sesso (si ricordi che in Cina il “matrimonio” omosessuale non è formalmente riconosciuto), avranno il permesso di mettere al mondo dei figli.
Altri, come per esempio Yi Fuxian, hanno affermato che “inclusione” significherebbe che i bambini nati in violazione della politica di pianificazione familiare potrebbero «non essere ritenuti responsabili».
Come spesso accade, l’opacità del Partito Comunista Cinese, specie per quanto riguarda i temi sensibili dei diritti umani, rende difficile interpretare in senso positivo le azioni intraprese, e quella che potrebbe apparire a prima vista una svolta finalmente pro life di un governo che di pro life non ha mai avuto un bel nulla rischia di rivelarsi una mera manovra burocratica, oppure fumo gettato negli occhi di un mondo occidentale sempre più politically correct e sempre meno incisivo.
Il regime prima comunista e poi neo-post-nazional-comunista cinese ha sulla coscienza (posto che ne abbia una) milioni di morti. Tra questi, i tanti, tantissimi piccoli abortiti nel corso dei decenni. È evidente che un ammorbidimento della rigida politica di totalitarismo demografico significherebbe la salvezza almeno di alcuni dei bambini che saranno concepiti. È comunque vero però che, anche qualora decidesse di “graziare” a piacimento vite umane innocenti, resterebbe sempre e comunque un totalitarismo perverso, convinto di poter disporre impunemente della vita e della morte dei suoi cittadini.