«Berlino Est 2.0»: le avventure di un uomo vivo

La speranza è sempre più grande dell’incubo peggiore, anche quando l’incubo assomiglia troppo alla realtà

Federico Cenci

Berlino Est 2.0

Last updated on Giugno 16th, 2020 at 03:29 am

«Il tintinnio delle bottiglie che si incontrano dà avvio ad un nuovo inizio». Può sembrare quasi un dispetto, aprire una recensione con la citazione della penultima frase di un libro senza nemmeno uno spoiler alert. Eppure di questo Berlino Est 2.0, Appunti tra distopia e realtà, che il collega Federico Cenci ha redatto nei giorni della «Fase 1» del lockdown, pare necessario riportare anzitutto questa frase, questa immagine: il nuovo inizio sta in un brindisi, nella condivisione, festosa, di un bene «non di stretta necessità». Questo perché l’uomo non è fatto della somma dei propri bisogni primari, ma di un desiderio che è sempre più grande, la cui soddisfazione domanda una ricerca non solitaria, una ricerca che si spinga sempre “più in là”.

Gli “appunti” di Federico restituiscono, con un gioco sapiente tra cronaca e fantasia, gli eventi che abbiamo vissuto tutti – e che in parte stiamo ancora vivendo – in una cornice distopica che permette uno sguardo più profondo, un giudizio non istintivo e superficiale, ma antropologicamente fondato. La Berlino Est 2.0 del libro vive un regime che si declina in regole, imposizioni e “nuovi stili di vita” sperimentati davvero: un regime finalizzato alla “sopravvivenza”, che poco ha a vedere con il benessere (men che meno con il “bene”) dei propri cittadini.

Il «Reddito di fedeltà al Megapartito», la «Chiesa digitale», la «Tessera del Cittadino»: siamo certi che immagini simili resteranno confinate nelle pagine di un racconto? La disponibilità, financo lo zelo, con cui si è ceduta una grande quantità di libertà personali e di diritti civili – certo, in un momento di grave crisi, ma secondo modalità che stanno perdurando ben oltre la ragionevolezza – suggerisce quantomeno una vigile attenzione.

Eppure, Berlino Est 2.0 non è un libro pessimista, né di denuncia: il «Presidente del Megapartito», «il filantropo speculatore Saurov», neppure il «fanatico dell’ideologia Walter» felice portatore volontario di un microchip sottocutaneo, sono personaggi di contorno, contraltari al vero protagonista della storia, e della Storia. Non già il narratore, che perplesso e un po’ sgomento come siamo stati tutti in questi mesi, si trova a registrare i dati di una realtà imprevista e addirittura inimmaginabile “prima” di trovarcisi catapultato dentro. Il protagonista di Berlino 2.0 è l’uomo che spera, l’uomo vivo: il bambino, istruito dall’istituzione «Figli del Device», distanziato dai compagni, additato come untore di un «morbo contagioso», che sulla propria seggiolina – nell’unica ora d’aria permessa a ogni cittadino sul balcone della propria abitazione – colora «il verde di un prato, l’azzurro del cielo e poi un mucchio di bambini festanti, tutti insieme». L’amico Jurgen «medico con la M maiuscola», censurato da «Scienza & Censura» perché ha osato sfidare l’ortodossia del pensiero unico. Reinhard, portato via dalla «sezione scientifica della Gnosi» per aver conservato una foto della propria gioventù da calciatore. Come un filo rosso, in ogni capitolo – potremmo dire in ogni quadro, ché ogni capitolo tratteggia un ambito di esperienza sotto l’egida del regime – con potenza crescente emerge l’incrollabile forza dell’Uomo, tutt’altro che spenta, bensì accentuata, rinvigorita addirittura dall’oppressione sempre più pressante.

Non si può essere che grati a Cenci per questa iniezione di ragionevolezza e di speranza: di fronte ai segni dei tempi, per altro così argutamente dettagliati nel testo, non vince l’inquietudine né la sensazione di ineluttabilità degli eventi. Basterà appoggiare il cellulare a testa in giù, superare i fatidici «300 metri da casa» e prendere per mano l’amica Britta per uscire dall’incubo distopico? Non è dato conoscere ora, nel dettaglio, la via che ci condurrà a quel brindisi, ma siamo sicuri che la percorreremo e ci ritroveremo «come se fossimo passati attraverso un grembo materno e fossimo rinati a nuova vita». Ché fine della vita non è vivere, men che meno sopravvivere: «non vivere ma morire e dare in letizia quel che abbiamo», dice lo scrittore francese Paul Claudel (1868-1955) ne L’annuncio a Maria. «Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la sopravvivenza eterna!».

Exit mobile version