Negli Stati Uniti d’America, sull’aborto, i nodi continuano a venire al pettine. Tra i Democratici, ad accogliere con giubilo tutte le novità più aberranti (dall’aborto al nono mese all’infanticidio post-natale), sono sempre, guarda caso, i bianchi. Gli afroamericani hanno in genere un approccio più problematico.
Una conferma si è avuta nel Congresso dello Stato del Connecticut, dove, al Senato, è in discussione un disegno di legge che prevede la possibilità di praticare l’aborto anche da parte di personale non-medico. La stessa bozza prevede anche una maggiore disponibilità di farmaci abortivi e più protezioni giuridiche per gli abortisti.
Bambine nere indottrinate a soli sette anni
Ebbene, a levare la propria voce fuori dal coro nell Congresso del Connecticut è la deputata afroamericana Treneé McGee, che denuncia l’indottrinamento sostanziale delle ragazze di colore, che vengono persuase sin dall’infanzia a usare l’aborto come «metodo di controllo delle nascite». Questo indottrinamento, tetsimonia la McGee, inizia addirittura già a sette anni.
«Viene loro insegnato che in qualsiasi momento, a 12, 13 o 15 anni, possono recarsi in un centro della Planned Parenthood per abortire, senza che i loro genitori lo sapiano», spiega la deputata. «Il motivo principale per cui molti dei miei colleghi credono che questo disegno di legge debba essere approvato è che ritengono che le donne nere e di origine ispanica non hanno accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva».
Alla propaganda dei suoi colleghi di partito la McGee contrappone numeri reali. Le donne di colore, afferma, rappresentano «il 14% della popolazione fertile, ma subiscono il 36,2% degli aborti». A corollario di ciò, «le donne nere hanno il tasso di aborti più alto del Paese: 474 ogni 1000 nati vivi»: una percentuale che dimostra che «19 milioni di bambini neri sono stati abortiti dal 1973», aggiunge la deputata del Connecticut.
Il peccato originale del controllo delle nascite
La McGee ricorda inoltre come, ai primi del secolo scorso, la fondatrice della Planned Parenthood, l’eugenista statunitense Margaret Sanger (1879-1966) avesse usato la parola «accesso» per prendere di mira delle donne delle minoranze etniche. Non a caso la Sanger era fortemente razzista, e tra l’altro eseguì «test contraccettivi sulle donne a Porto Rico», donne «per generazioni non sono state in grado di partorire».
Alle donne nere, in definitiva, non è mai mancato «l’accesso» all’aborto, proprio perché, ricorda la McGee, «eravamo l’obiettivo principale della legalizzazione dell’aborto». «C’è molto che viene taciuto, quando si tratta questo argomento, ma per me è parte della mia lotta per la giustizia razziale»,
Un caso non isolato
La denuncia accorata della deputata del Connecticut non è affatto un caso isolato. Preziosa è per esempio la testimonianza data da Gary Franks, primo deputato statunitense Repubblicano afroamericano, che per anni era stato un convinto sostenitore dell’aborto, della Planned Parenthood e del controllo delle nascite. Dopo decenni passati così, Franks si era poi reso conto, però, che la percentuale dell’aborto tra i neri è proporzionalmente maggiore che tra i bianchi, e che l’assistenza sanitaria statunitense finisce per penalizzare proprio i neri, inducendo molti di loro a pensare che l’aborto sia l’unica soluzione a certe questioni. Un inganno enorme, questo, portato avanti in modo machiavellico da certe élite bianche, cui gli afroamericani hanno creduto, firmando così la propria condanna.