«L’eutanasia è un crimine contro la vita umana»

La lettera «Samaritanus bonus» della Congregazione per la Dottrina della Fede denuncia la menzogna del nostro tempo: la «buona morte» non esiste

Città del Vaticano dal Tevere

Image by Jedi Equester from Unsplash

Una carezza e una presenza. È una carezza la lettera Samaritanus bonus, documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sul fine vita approvato da Papa Francesco e presentato ieri alla stampa. Una carezza che asciuga le lacrime delle migliaia di famiglie che oggi assistono una persona cara che combatte tra la vita e la morte. Una carezza che riporta la Chiesa Cattolica vicina alle più profonde domande di senso dell’uomo, che di fronte al limite estremo della malattia e della morte vede cadere tutte le proprie certezze.

È infatti una presenza, la lettera Samaritanus Bonus: la presenza della sentinella che si pone ancora una volta a custodia dell’umano, in modo particolare quando è più fragile e indifeso. Una presenza che impone la voce della Chiesa nel dibattito pubblico, alla luce della situazione odierna, «caratterizzata da un contesto legislativo civile internazionale sempre più permissivo a proposito dell’eutanasia, del suicidio assistito e delle disposizioni sul fine vita».

«Inguaribile» non significa «incurabile»

L’intero testo parte dal grido di Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005): «Guarire se possibile, aver cura sempre». Esistono infatti malattie inguaribili, ma non esistono mai persone incurabili. Così, tutti gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a prendersi cura dell’altro, che è una persona e che non deve mai essere identificata solamente con la patologia che lo o la affligge.

La prima responsabilità è del resto di medici e infermieri: «Anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico, psicologico e spirituale, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato».

Di fronte al malato c’è dunque lo «sguardo contemplativo», quello di chi «non pretende di impossessarsi della realtà della vita, ma sa accoglierla così com’è, con le sue fatiche e le sue sofferenze, cercando di riconoscere nella malattia un senso dal quale si lascia interpellare e “guidare”, con la fiducia di chi si abbandona al Signore della vita che in esso si manifesta».

Ma allora da dove deriva il favor mortis oggi così diffuso? Dalla solitudine del malato dinanzi alla malattia, al dolore, al senso di dipendenza dagli altri: «La paura della sofferenza e della morte, e lo sconforto che ne deriva, costituiscono oggigiorno le cause principali del tentativo di controllare e gestire il sopraggiungere della morte, anche anticipandola, con la domanda di eutanasia o di suicidio assistito».

La «buona morte» non esiste

Di fronte alla richiesta di anticipare la morte, l’uomo non può mai rispondere in modo affermativo: «così come non si può accettare che un altro uomo sia nostro schiavo, qualora anche ce lo chiedesse, parimenti non si può scegliere direttamente di attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede».

La Congregazione per la Dottrina della Fede esamina due spie, due allarmi che devono risvegliare la ragione e la coscienza: «morte dignitosa» e «qualità della vita». Sono concetti pericolosi, perché segno di «una prospettiva antropologica utilitaristica». Non c’è infatti compassione nell’accompagnare alla morte, la vera compassione consiste «nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e i mezzi per alleviare la sofferenza». Ma è difficile pensare di fare tutto questo ‒ afferma il documento ‒ se l’intera società è attraversata da un «individualismo crescente, che induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà».

Terri, Eluana, Charlie, Alfie, Vincent

Più volte la Congregazione per la Dottrina della Fede riparte dal concetto della libertà vera dell’uomo, e qui la memoria non può non tornare alle storie più recenti che sono state lo strappo nel cielo di carta della narrazione sulla «dolce morte»: Charlie Gard (2016-2017), Alfie Evans (2016-2018), Vincent Lambert (1976-2019).

Per loro la «dolce morte» è arrivata contro il parere dei genitori, nel modo più atroce: Charlie e Alfie sono morti soffocati, perché è stato tolto loro il ventilatore che li aiutava a respirare. Vincent è morto di fame e di sete, dopo nove giorni di agonia con uno strazio che ricorda quello vissuto da Terri Schiavo (1963-2005), 15 giorni di agonia senza acqua né cibo, e quello vissuto da Eluana Englaro (1970-2009), per la quale vibrano le parole della giornalista Lucia Bellaspiga: «Ancora oggi la gran parte degli italiani è convinta che Eluana vegetasse attaccata a una macchina. E che sia morta di morte naturale perché fu staccata una spina dal muro».

Il documento vaticano è chiaro: questi abusi non devono ripetersi. Perché «l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente», perché «l’eutanasia è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza». E il documento, pur senza richiamare esplicitamente questi casi, questi nomi, denuncia: «In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia».

I medici non possono uccidere

Pertanto, anche chi contribuisce, sia questi un medico, un famigliare o un amico, a porre fine alla vita umana diventa complice del crimine: «L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli».

Il personale sanitario non può dunque mai prestarsi «a nessuna pratica eutanasica neppure su richiesta dell’interessato, tanto meno dei suoi congiunti». E i cappellani non possono mai essere presenti all’atto eutanasico o di suicidio assistito: «Tale presenza non può che interpretarsi come complicità».

Alla fine della lettura, che la presenza della Chiesa «ospedale da campo», capace di combattere la «cultura dello scarto», sia una carezza all’umanità non è più soltanto una speranza: è una certezza. Non esistono vite non degne di essere vissute. Non esistono malattie che rendono una persona meno degna di ricevere cure. La voce della Chiesa si fa faro di civiltà in un mondo smarrito.

Exit mobile version